lunedì 18 novembre 2013
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Da quasi quarant’anni raccoglie il grido disperato dei figli di nessuno, i meninos de rua, i piccoli di strada brasiliani. Padre Renato Chiera, fondatore della “Casa do Menor” di Rio de Janeiro è uno che le periferie le conosce bene. Ecco perchè partecipando stamani alla Messa di Casa Santa Marta a Roma davanti a papa Francesco non è riuscito a trattenere la commozione: «È un’emozione grande – ha spiegato a Radio Vaticana -. Il Papa mi sembra la presenza di Gesù in carne viva, che viene tra l’umanità per chinarsi sulle sue piaghe. Lui parla sempre di andare in strada, di andare nelle periferie. Ho avuto la conferma di quello che con umiltà e anche con fragilità cerchiamo di fare nella Baixada Fluminense, nella periferia di Rio, al fianco dei ragazzi non amati. E papa Francesco mi ha detto: «Un buon lavoro, un bel lavoro». Padre Chiera ha così donato al Papa il suo libro Presenza (Jaca Book) in cui è racchiusa tutta la sua incredibile avventura. 71 anni, originario di Villanova Mondovì (Cuneo), figlio di contadini piemontesi, dopo la laurea in filosofia all’Università Cattolica di Milano, padre Renato fu inviato come sacerdote diocesano (fidei donum) a Rio de Janeiro. È qui che nel 1986 ha fondato la Casa do Menor Sao Miguel Arcanjo, una comunità per bambini di strada che oggi è diffusa in cinque stati brasiliani e si prende cura di oltre 4 mila ragazzi. Quando nel 1978 il vescovo di Mondovì gli chiese di partire non ebbe esitazione: «Avevo da tempo maturato una sensibilità per gli emarginati. E mi colpì subito la povertà della gente e la violenza che nelle favelas riguardava soprattutto i più piccoli. Misi un altoparlante sulla mia macchina e andavo in giro dicendo che ero un prete cattolico ed ero pronto a prendermi cura di loro». La svolta avvenne con Carlos, il "suo" primo menino: «Rubava e si drogava perché era solo. Da quando l’avevo accolto era cambiato. Ma una sera tornai a casa e lo trovai morto. Gli squadroni della morte l’avevano sparato. Per me era un figlio». Ma era soltanto l’inizio di una lunga serie di violenze: «In un solo mese uccisero 36 ragazzi della parrocchia. Io ero già stato minacciato di morte varie volte, dicevano che mi impicciavo troppo delle faccende sociali. Il mio vescovo era stato sequestrato. Ero solo in una parrocchia di 150 mila abitanti. Un ragazzo venne da me gridando: “Sono nella lista di coloro che vogliono uccidere, aiutami! Noi fai nulla? Qui nessuno fa niente.” C’era un clima di terrore, e anch’io avevo qualche timore, ma ripensavo alle parole di Gesù: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me…” (Mt, 25, 40). Non sapevo ancora cosa fare, però molti ragazzi delle favelas venivano già sulla porta di casa mia a dormire. Mi chiedevano di voler restare con me. Ma non avevo spazi. Prima ho cominciato ad accoglierli nel furgoncino, poi li ho messi in garage e infine grazie all’aiuto di alcuni benefattori costruii una nuova stanza…». Nacque così un’opera che ormai ha quasi trent’anni di storia e può contare su un’equipe di 150 operatori: «Per noi nessuno è irrecuperabile. E in fondo ascoltiamo solo il loro lamento. Il loro grido più grande non è quello di essere poveri. Ma di non essere figli. Essere figli vuol dire sentirsi amati, vuol dire che c’è qualcuno che mi vuole bene. Mentre loro non hanno nessuno che li aspetta a casa la sera, nessuno che creda in loro. E se hanno ancora i genitori, questi non li vogliono. Il nostro compito è fargli sentire attraverso di noi una Presenza con la P maiuscola». Dall’incontro con il Papa padre Renato porterà ai suoi ragazzi ancora questa consapevolezza: «La Chiesa, attraverso il Papa, in carne ed ossa, è l’amore di Dio per loro». E se in tutti questi anni ha raccolto tante lacrime, padre Renato non ha perso il buonumore: «Non sono io che ho scelto il Brasile. Ma qualcuno dall’alto mi ha scelto. Sono entrato nella realtà dei ragazzi tirato per i capelli, difatti ora non ne ho più». E questa sua ironia l’ha manifestata anche al Papa: «In forma scherzosa gli ho detto: “Guardi, io sono piemontese come lei, di vicino Asti, e le ho portato una bottiglia di vino di Asti e un torrone di Alba”. E lui ha riso». Ma al pontefice ha portato anche diverse lettere dei suoi meninos de rua e un nuovo progetto: «Una coppa alternativa… Una “coppa del mondo” dei ragazzi di strada recuperati». L’ennesima sfida di chi non teme nulla: «Spesso ho avuto paura e ho dovuto tagliare la barba per scappare. Mi hanno perfino dato del comunista… Ma non per un’ideologia sono pronto a dare la vita, ma per Cristo. Non sto nelle favelas perché amo la miseria, ma perché nei ragazzi poveri vedo lo sguardo di Gesù crocifisso».
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