venerdì 22 maggio 2015
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Alla Messa domenicale delle 8 in Cattedrale, in genere, non partecipava. Nemmeno la ascoltava alla radio, in diretta. A quell’ora, Roberto Cuéllar giocava a calcio. La sua passione, il suo antidoto per riprendersi da una settimana di lavoro estenuante. Era, così, uno dei pochi salvadoregni a conoscere sempre in ritardo le celebri omelie di monsignor Óscar Arnulfo Romero. Un paradosso per l’uomo che contribuiva in modo determinante alla stesura di quegli interventi. Cuéllar, ora responsabile per El Salvador dell’Organizzazione degli Stati iberoamericani, era all’epoca il giovane direttore del Socorro Jurídico, l’ufficio per i diritti umani creato dall’arcivescovo per assistere le troppe vittime della violenza dei militari e degli squadroni della morte. Erano i rapporti di Roberto la base che monseñor (come i salvadoregni chiamano Romero) utilizzava per le sue denunce profetiche ogni settimana. «L’ultima domenica, però, il 23 marzo, c’ero. E mi è venuta la pelle d’oca quando l’arcivescovo ha esortato i soldati a porre fine alla repressione. È stato molto forte», racconta Beto ad Avvenire. Così gli si rivolgeva Romero che nel suo diario lo nomina spesso e con affetto. Cuéllar avrebbe ripensato a quell’omelia 35 ore dopo – il 24 marzo 1980, il giorno del martirio – mentre stringeva le mani senza vita di monseñor, appena spirato nella Políclinica salavadoregna, con un proiettile nel cuore. «Senza di lui mi sentivo perso. Mi chiedevo: “Che cosa accadrà ora?”». La risposta l’ha ricevuta nel novembre successivo quando, a guerra ormai iniziata, Cuéllar ha dovuto lasciare El Salvador e il Socorro jurídico per sfuggire alla macchina della morte. I tre anni a fianco dell’arcivescovo nella difesa dei diritti umani sono costati a Roberto due decenni di esilio, minacce, paura. Eppure non ha rimpianti. «Pentito? Mai, mi dispiace solo che siano volati via così in fretta. È stata l’esperienza professionale più affascinante, stimolante e istruttiva della mia vita. Monseñor mi ha insegnato tanto, non solo come cristiano ma anche come uomo e avvocato. Da lui ho imparato che, per difendere i diritti umani dei poveri, devi scendere dalla cattedra, ascoltare la gente e metterti a loro servizio. Romero è stato un grande uomo della giustizia: credeva nella legge, mai nella violenza, come strumento per la costruzione di una società più inclusiva».La stessa concezione che i gesuiti avevano trasmesso a Roberto al liceo-Externado di San José e poi all’Università centroamericana «José Simeón Cañas» (Uca). Alla Uca era nato, nel 1975, il primo nucleo del Socorro: un gruppo di laureandi di giurisprudenza – sotto la supervisione di padre Segundo Montes (assassinato insieme a cinque confratelli e due donne il 16 novembre 1989) – assisteva volontariamente le vittime di abusi che non avevano i mezzi per pagare un legale. Roberto era fra questi. Quando, il 12 marzo 1977, il gesuita Rutilio Grande fu ucciso, i “ragazzi” si offrirono di assumere il caso in rappresentanza della Chiesa. «L’ostacolo era il nuovo arcivescovo, monsignor Romero. Quest’ultimo voleva affidare un incarico di tale importanza ad avvocati di esperienza. Anche per non esporci a rischi, in una situazione così delicata. Nessuno dei grandi legali, però, accettò il caso. E li capisco. Erano terrorizzati. Anche noi lo eravamo. Ma avevamo fede, fervore e un pizzico di incoscienza. È stato il nostro entusiasmo a conquistare monseñor che dopo qualche settimana ci ha chiamato a gestire l’ufficio legale dell’arcivescovado. E lui ha conquistato noi, me. Mi ha mostrato come usare il diritto per mettere in pratica le Beatitudini». In questo senso, davvero l’arcivescovo era «una Buona Notizia», come lo definisce padre Jon Sobrino nel libro Romero, martire di Cristo e degli oppressi appena pubblicato da Emi. «Romero è stato il primo procuratore per i diritti umani del Salvador, anche se la carica è stata inventata molto dopo…».
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