giovedì 23 maggio 2013
​Oggi la professione di fede del Papa con i vescovi del Paese. L'incontro odierno conclude la visita ad limina iniziata con Benedetto XVI. Un itinerario alle radici del credere nell'Anno della fede.
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Le immagini che si potrebbero usare sono diverse. Quella del pellegrinaggio, ad esempio. Un pellegrinaggio in 16 tappe (otto con Benedetto XVI e altrettante con Francesco) dal 14 gennaio ad oggi. Oppure quella della radiografia per monitorare lo stato di salute della Chiesa in Italia. Oppure ancora l’immagine della festa di famiglia, avvalorata dal fatto che in diverse occasioni gruppi di fedeli hanno accompagnato a Roma i loro vescovi, stringendosi intorno al Papa durante le udienze del mercoledì. È certo, però, che le visite ad limina del 2013, da parte delle 16 regioni ecclesiastiche italiane, resteranno nella memoria. E non solo perché svoltesi a cavallo del cambio di Pontificato. Ma anche e soprattutto perché hanno intercettato e fatto proprio l’itinerario dell’Anno della fede disegnato da papa Ratzinger e proseguito da papa Bergoglio.Così, in effetti, la professio fidei odierna sulla tomba di Pietro, alla presenza del Vescovo di Roma, primo incontro del nuovo Pontefice con la «sua» Conferenza episcopale, non è solo la diciassettesima e ultima tappa del «giro d’Italia della fede» degli ultimi mesi, ma anche un nuovo punto di partenza per mettere in atto ciò che le visite ad limina hanno fatto emergere. In pratica il volto di una Chiesa fortemente radicata sul territorio, attenta alle esigenze vera della popolazione, ma alle prese con la sfida della secolarizzazione. E dunque bisognosa di andare alle radici della fede. Proprio come l’anno in corso chiede di fare.La fede innanzitutto. Da questo punto di vista si potrebbe estendere a tutta l’Italia la metafora che l’arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, Gualtiero Bassetti, vicepresidente della Cei, applicava alla sua Umbria. «Una Chiesa che ha il sorriso di un giovane, lo sguardo di un adulto, e gli acciacchi di un anziano». Detto in altri termini che la Chiesa sia la «spina dorsale» del Paese, e come tale anche «fonte di speranza», è fuori di dubbio (sorriso e sguardo). Ma come faceva notare l’arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, «il rischio è che ci impegniamo molto sulle cose da fare, senza coltivare le radici del nostro agire e cioè la fede in Gesù Cristo». Di qui la necessità di trasformare una fede «pur radicata, ma frutto di tradizione» – come hanno ricordato l’arcivescovo di Pescara-Penne, Tommaso Valentinetti e diversi altri presidenti di Conferenze episcopali regionali – in una fede adulta, capace di «far comprendere – come affermava il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano – che il cristianesimo è "l’umanesimo veramente umano"».«È necessaria una forte ri-evangelizzazione», notava il cardinale Carlo Caffara, arcivescovo di Bologna. Anche perché questa fede deve fare i conti con gli attacchi alla famiglia e alla vita, con il diffondersi dell’indifferentismo religioso, ma soprattutto con quella che l’arcivescovo di Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo, Agostino Superbo, paragonava alle polveri sottili che avvelenano le nostre città. «La secolarizzazione e il relativismo, cioè il vivere come se Dio non esistesse». Un clima che non conosce confini e che si estende, secondo la testimonianza dei relativi presidenti delle conferenze regionali, anche a contesti come la Sardegna, la Puglia, il Triveneto, le Marche, tradizionali roccaforti del cattolicesimo nostrano.Ripartire dalla speranza. Oltre alla diagnosi però, nelle viste ad limina è emersa con forza la consapevolezza (del resto all’ordine del giorno anche nell’Assemblea generale di questi giorni) che occorre ripartire da un’opera di educazione alla fede a tutti i livelli e da percorsi di iniziazione cristiana ripensati per essere meglio adattati a una società in cui non è più scontato nascere cristiani. Quest’opera, come hanno sottolineato i rispettivi presidenti (i cardinali Crescenzio Sepe e Paolo Romeo e l’arcivescovo Vittorio Mondello), si fa particolarmente urgente in quelle zone in cui c’è da combattere anche la malavita organizzata, ma deve essere patrimonio comune di tutta la penisola. E i suoi destinatari privilegiati sono i giovani, «i più esposti alla dittatura del relativismo» (Martino Canessa, vescovo di Tortona e vicepresidente della Conferenza episcopale ligure). Giovani ai quali (cardinale Agostino Vallini, presidente della conferenza episcopale del Lazio) «trasmettere la fede cristiana come senso della vita anche nella dimensione sociale».La via della carità. Strada privilegiata per questo rinnovato annuncio, specie in tempi di crisi, è la carità. Un impegno che – come è più volte emerso, da ultimo durante l’assemblea generale – vede la Chiesa italiana in prima linea anche nel sostenere il welfare statale. La carità vede all’opera un vero e proprio esercito di volontari (le misericordie della Toscana, ad esempio) e trae linfa dai numerosi esempi di santità, antica e recente. I santi sociali del Piemonte sono da questo punto di vista la punta di un iceberg che affonda le sue radici in due millenni di storia cristiana e che rinnova continuamente il suo volto, come dimostra la beatificazione, sabato prossimo, di don Pino Puglisi. Insegnamento e monito anche per il futuro. Soprattutto per alimentare quella missionarietà evangelica che papa Francesco chiede di spingere fino alle periferie geografiche ed esistenziali di ogni ambito della vita.
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