sabato 11 luglio 2015
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Questo testo è stato pubblicato in Stimmen der Zeit (luglio 2015, pp. 435-4451. Un problema spinoso e complesso La questione dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti non è un problema nuovo e non è un problema tedesco. La discussione attorno a tale questione si sviluppa da anni a livello internazionale. Papa Giovanni Paolo II si è pronunciato in proposito nell’esortazione apostolica Familiaris Consortio (FC) (1982) (n. 84) a favore della prassi ecclesiale vigente. Nell’esortazione Reconciliatio et paenitentia (1984) (n. 34) ha ribadito espressamente questa posizione. Essa è entrata nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1993) (n. 1650) e nella Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 1994. Papa Benedetto l’ha confermata nella sua esortazione apostolica Sacramentum caritatis (SC) del 2007 (n. 29). Papa Giovanni Paolo II ha parlato di una questione difficile e quasi insolubile, papa Benedetto di un problema difficile e spinoso. Non è quindi sorprendente che la discussione sulla questione da allora non si sia placata. Essa non riguarda solo i cristiani che ne sono toccati immediatamente, ma anche molti cristiani praticanti e impegnati che sono sposati da cinquant’anni o più, non hanno mai pensato al divorzio, ma sperimentano ora dolorosamente il problema nei loro figli e nipoti. I loro figli, a loro volta, nella maggior parte dei casi solo con difficoltà riescono a trovare la via che li conduce ai sacramenti, se i loro genitori non possono dare loro l’esempio. Non c’è quasi nessuna famiglia che non sia toccata da questi problemi. È dunque comprensibile che il problema sia avvertito come scottante da molti pastori e confessori, teologi e vescovi. Come ci si poteva attendere, la questione si è accesa di nuovo ed è stata oggetto di controversie alla vigilia e nel corso del Sinodo straordinario dei Vescovi del 2014. Il Sinodo ordinario del 2015 deve portare a termine la discussione delle questioni e presentarle al papa perché prenda una decisione. Nelle considerazioni seguenti cerco soltanto di chiarire e di approfondire la problematica, per quanto mi è possibile. 2. La parola di Gesù – vincolante e sfida sempre nuova Fondamentale è la parola di Gesù che l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto. Questa parola si trova in tutti e tre i vangeli sinottici (Mt 5,32; 19, 9; Mc 10,9; Lc 16,18) ed è testimoniata anche dall’apostolo Paolo (1Cor 7,10s).[4] Non può esservi dubbio ragionevole che questa parola nella sua sostanza risale a Gesù. Nella sua inaudita radicalità questa parola non fa difficoltà solo oggi. Già i primi discepoli sono stati scioccati e per il mondo ellenistico-romano di allora era assolutamente una provocazione. Allora come oggi non possiamo indebolire la parola di Gesù attraverso l’adattamento alla situazione. Con questa parola, che si rifà a Deut 24,1, Gesù ha respinto la casistica giudaica e in tal modo ha rigettato anche qualsiasi altra spiegazione casuistica o eccezione alla volontà originaria di Dio. La parola di Gesù non è quindi una norma giuridica, ma un principio fondamentale che la chiesa, con la potestà che le è affidata di legare e sciogliere (Mt 16,19; 18,18; Gv 20,23), deve far valere nelle situazioni culturali che cambiano. La parola di Gesù non deve perciò essere spiegata in modo fondamentalistico. Bisogna cogliere tanto il limite quanto l’ampiezza della parola di Gesù, comprenderla nell’insieme del messaggio di Gesù e rimanere fedeli alla parola di Gesù senza dilatarla oltre misura.[5] Questa spiegazione autorevole la troviamo già in epoca neotestamentaria: nelle ben note clausole sull’adulterio per la comunità giudaica di Matteo (5, 32; 19,9), e poi di nuovo in Paolo che in un contesto etnico-cristiano, decide con autorità apostolica per la libertà cristiana che deve valere nel matrimonio con un non credente, il quale non voglia vivere in maniera conveniente con il coniuge cristiano (1Cor 7,12-16). Su questa base si sono sviluppati più tardi il privilegium paulinum e il privilegium petrinum, così come la possibilità di sciogliere, in virtù della potestà di legare e sciogliere, un matrimonio sacramentale concluso validamente, ma non consumato. In questo contesto si può comprendere la prassi pastorale flessibile di alcune chiese locali nella chiesa delle origini. L’interpretazione dei testi relativi è controversa tra gli specialisti.[6] Su nessuna di queste ipotesi è possibile costruire una soluzione ecclesiale oggi. È tuttavia interessante il fatto che ai Padri di Trento il problema fosse noto. Essi hanno perciò insegnato contro Lutero che la chiesa non sbaglia quando non riconosce un secondo matrimonio (DS 1807), ma intenzionalmente non hanno condannato la diversa prassi ortodossa In tal modo essi hanno insegnato l’indissolubilità del matrimonio concluso validamente (DS 1797s.; cfr. 794; 3710s), ma non l’hanno definita formalmente. Essa è però dottrina di fede vincolante, che stimola la riflessione ed è sempre una nuova sfida.      3. Il matrimonio – un segno frammentario dell’alleanza Il Vaticano II ha raccolto la sfida. Ha superato la comprensione del matrimonio come contratto, sviluppata in linea con il diritto romano e ha compreso il matrimonio in modo analogo a quanto già aveva fatto Tommaso d’Aquino con la teologia biblica dell’alleanza come intima comunione di vita e di amore, in cui i coniugi si donano e si ricevono reciprocamente (GS 47). Con questa complessiva comprensione personale il matrimonio, richiamandosi a Ef 5,25, viene interpretato come immagine sacramentale della relazione d’alleanza tra Cristo e la chiesa. Di conseguenza la relazione tra l’uomo e la donna deve seguire il modello della relazione tra Cristo e la chiesa. Questa dottrina del matrimonio fondata nell’idea biblica di alleanza è diventata il criterio per l’insegnamento ecclesiale e la teologia recente. Da essa risulta una giustificazione più profonda dell’indissolubilità del matrimonio. Come il patto stabilito da Dio in Gesù Cristo con la chiesa è definitivo e irrevocabile, così è anche il patto coniugale in quanto simbolo reale di questa alleanza. È una concezione grandiosa e convincente. Non deve tuttavia portare a una idealizzazione estranea alla vita. Nella lettera agli Efesini si dice che Cristo ha amato la chiesa, si è donato per lei e l’ha resa pura e santa nell’acqua e mediante la parola, così che essa gli stia di fronte gloriosa, senza macchia né ruga, santa e immacolata (5,24-27). Questa non è la descrizione di una situazione, ma espressione di una promessa escatologica, verso la quale la chiesa è sempre in cammino. Nel suo pellegrinaggio terreno infatti la chiesa può realizzare ciò che essa è, cioè la chiesa santa, solo in modo frammentario. Come chiesa santa è anche la chiesa dei peccatori, che talvolta si presenta come prostituta infedele e che sempre deve percorrere la via della conversione, del rinnovamento e della riforma (LG 8; UR 4). Questo vale anche per il matrimonio cristiano. Esso è un grande mistero (mysterion) in relazione a Cristo e alla chiesa (Ef 5,32). Ma non può mai realizzare nella vita questo mistero in modo pieno, ma sempre solo in forma frammentaria. In questo senso è sotto molti aspetti un segno frammentario dell’alleanza. I coniugi rimangono in cammino e sono sotto la legge della gradualità (FC 9; 34). Hanno sempre bisogno della conversione e della riconciliazione e sono sempre di nuovo rinviati al Dio ricco di misericordia (Ef 2,4) (FC 38). Il dramma può giungere fino al punto che anche i cristiani possono fallire nel loro matrimonio. Questo fallimento è sempre una catastrofe umana, in cui un progetto di vita con tutte le sue speranze va incontro alla delusione e si infrange. Un tale fallimento fa parte anche della teologia biblica dell’alleanza. Nel modo più drammatico questo si vede nel profeta Osea. In primo luogo egli constata: Israele è diventato una prostituta; Dio ha definitivamente rotto il patto (Os 1,9; 2,4-15). Ma la giusta ira di Dio lascia il posto alla misericordia. Egli lascia al suo popolo un nuovo inizio (Os 11,8s; cfr. 2,16-25). Di fronte al messaggio di Gesù il popolo si rifiuta di nuovo nella sua totalità. La critica di Gesù a questa durezza di cuore è chiara. Ma in seguito Gesù fonda, come nostro rappresentante, con la sua croce e la sua risurrezione la nuova alleanza. Egli dona il cuore nuovo promesso dai profeti (Ez 36,6s.; cfr. Ger 31,33; Sal 51,12). La durezza di cuore perdura tuttavia nella peccaminosità dei cristiani. Ma Dio rimane fedele, anche quando noi siamo infedeli. La sua misericordia è senza limiti. Una teologia realistica del matrimonio deve considerare questo fallimento così come la possibilità del perdono. Anche nel fallimento umano perdura la promessa della fedeltà e della misericordia di Dio. In questo senso la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio diviene di nuovo attuale. Essa non è un semplice ideale. Il sì di Dio perdura anche quando il sì umano si indebolisce o addirittura si infrange. Esso appartiene in modo permanente alla storia della libertà dei coniugi. Il patto coniugale stabilito da Dio stesso non si infrange anche se l’amore umano si indebolisce o si spegne del tutto. E tuttavia, anche in situazioni di fallimento umano nel matrimonio, la situazione non è mai senza prospettiva e senza speranza. Anche in situazioni nelle quali noi non vediamo alcuna via d’uscita, Dio può aprire una via nuova. La misericordia di Dio è affidabile, se solo noi ci affidiamo ad essa. Una tale teologia realistica dell’alleanza, che per così dire resiste alla crisi, pone la chiesa di fronte alla questione: come può essa che si comprende come sacramento della misericordia di Dio, accompagnare su un nuovo cammino e dare nuova speranza a persone che nel loro matrimonio hanno dolorosamente fallito.      4. La comunione spirituale – una via d’uscita? Riguardo alla situazione di un matrimonio fallito, anche di divorziati risposati, la chiesa non si trova davanti a un nulla pastorale. I documenti ecclesiali recenti chiedono con forza di accostarsi alle persone che si trovano in tali situazioni dolorose e di invitarle alla partecipazione alla vita della chiesa (FC 83s; SC 29). Spesso si cerca di aprire loro un cammino con Cristo, anzi in Cristo, attraverso l’idea di comunione spirituale. Con il concetto della comunione spirituale si recupera un concetto tradizionale che è purtroppo caduto in oblio. Nei documenti del Vaticano II e nel Catechismo della Chiesa Cattolica purtroppo non viene menzionato; solo nei documenti magisteriali più recenti viene ripreso di nuovo e spesso inteso come una via d’uscita che permette di compiere un passo in avanti nella spinosa questione dei divorziati risposati. La tradizione della comunione spirituale è fondata già nel grande discorso sul pane di vita del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni e poi nella sua interpretazione da parte di Agostino. Qui è il pane della vita che è Gesù Cristo, del quale diventiamo partecipi nella fede. Nel medioevo la dottrina della comunione spirituale si trova soprattutto in Tommaso d’Aquino. Il Concilio di Trento l’ha ripresa nell’insegnamento magisteriale (DS 1648; 1747). Ne risulta un triplice significato: il desiderio della comunione sacramentale (comunione in voto o cum desiderio), la recezione spirituale della comunione sacramentale (manducatio spiritualis) a differenza della recezione indegna o solo esteriore (manducatio mere sacramentalis) e infine il rendere fruttuosa la comunione sacramentale facendola propria mediante atti di pietà personale e in particolare nell’adorazione eucaristica. Compresa correttamente la comunione spirituale non è una forma alternativa rispetto alla comunione sacramentale, ma è essenzialmente riferita alla comunione sacramentale. L’applicazione alla situazione dei divorziati risposati appare perciò problematica. Si raccomanda in questo modo una via alternativa alla comunione sacramentale? Affatto. Ciò infatti sarebbe in contraddizione con l’autocomprensione sacramentale della chiesa cattolica come sacramento visibile, cioè come segno e strumento della grazia. A ciò si aggiunge che chi riceve la comunione spirituale e nella fede è unito a Cristo non può trovarsi al tempo stesso nello stato di peccato grave. Perché allora non può partecipare anche alla comunione sacramentale? L’applicazione della comunione spirituale al problema dei divorziati risposati, se si presuppone la comprensione tradizionale, porta in un vicolo cieco. Questa via è invece possibile se tacitamente si suppone un altro significato della comunione spirituale. In questo nuovo significato la comunione spirituale non designa il desiderio della comunione sacramentale che nasce dall’essere uniti a Cristo nella fede, ma un desiderio nel quale il cristiano che vive in una situazione irregolare prende coscienza della sua separazione da Cristo e diviene consapevole che il suo desiderio, finché non modifica in modo fondamentale la sua situazione, non può essere soddisfatto. Così compresa la comunione spirituale può diventare un salutare impulso alla metanoia. Una tale nuova comprensione è dunque oggettivamente possibile. Porta tuttavia inevitabilmente con sé equivoci terminologici. La tradizione della chiesa ci può raccomandare una via non esposta al rischio di equivoci.      5. Per un rinnovamento della via paenitentialis La chiesa antica ha sperimentato dolorosamente assai presto, già nel tempo della persecuzione, che i cristiani possono fallire. Nel tempo della persecuzione molti cristiani si sono dimostrati deboli e hanno rinnegato il loro battesimo. Ciò ha portato, dopo il tempo della persecuzione, a una vivace discussione circa il modo in cui la chiesa doveva comportarsi di fronte a tale situazione. Padri della chiesa in Oriente e Occidente hanno difeso contro il rigorismo di Novaziano, che proponeva l’ideale della chiesa come vergine pura, l’immagine della chiesa come madre misericordiosa, le cui porte sono sempre aperte al peccatore disposto alla conversione. Essi hanno sviluppato la penitenza canonica, compresa come secondo battesimo non nell’acqua ma nelle lacrime del pentimento e della penitenza. In questo modo la chiesa ha preso sul serio la sua autorità di rimettere i peccati e il suo ministero della riconciliazione (2Cor 5,20). Mediante il sacramento della riconciliazione essa ha concesso dopo il naufragio del peccato non un secondo battesimo, ma per così dire una tavola di salvezza, che salva dall’annegamento e rende possibile la sopravvivenza. Alcuni padri hanno applicato un procedimento simile anche a cristiani che avevano rotto il loro legame matrimoniale, vivevano in una seconda unione e mediante la via della penitenza erano riconciliati e ammessi alla comunione. La chiesa orientale ha proseguito su questa via. Nel quadro di una liturgia penitenziale essa ha permesso un secondo e anche un terzo matrimonio che – benché il segno della “incoronazione” sia il medesimo – comprende non come sacramento, ma come benedizione. Inoltre essa ha recepito dal diritto imperiale bizantino ulteriori motivi per il divorzio, che vanno al di là delle clausole sulla fornicazione in Matteo. Determinante per questa prassi è il principio dell’oikonomia, che si ispira al modo misericordioso di agire di Dio nella storia della salvezza. La chiesa occidentale non ha fatto propria questa prassi, ma ha sviluppato un proprio diritto matrimoniale indipendente dal diritto imperiale bizantino. Si discute spesso se la chiesa occidentale debba far propria la prassi ortodossa. Certamente essa può imparare dalla comprensione ortodossa dell’oikonomia. E tuttavia un ulteriore sviluppo del suo diritto matrimoniale dovrà avvenire nella linea della propria tradizione giuridica che non conosce una forma liturgica per il secondo matrimonio. L’oikonomia orientale corrisponde invece sotto molti punti di vista nella tradizione occidentale al principio dell’epikeia. Nel significato che le attribuisce Tommaso d’Aquino non è un diritto di eccezione, né una cessazione della vigenza del diritto, ma è la giustizia più alta, che in situazioni complesse, nelle quali una interpretazione letterale del diritto sarebbe iniqua, fa valere il diritto in modo misericordioso “giustamente ed equamente”. L’equità è stata compresa nella canonistica medievale come iustitia dulcore misericordiae temperata, cioè, traducendo liberamente: giustizia che con la dolcezza della misericordia trova concreta applicazione con oculatezza. In questo senso, in situazioni umanamente difficili, la chiesa potrebbe fare uso misericordiosamente della potestà di legare e sciogliere. Si tratta in questo caso non di eccezioni al diritto, ma di una equa e misericordiosa applicazione del diritto. Non si intende una pseudomisericordia a buon mercato. Vale infatti, secondo quanto si legge in 1Cor 11, 28, il seguente principio: chi ostinatamente, cioè senza volontà di conversione, persevera nel peccato grave non può ricevere l’assoluzione ed essere ammesso alla comunione (CIC can 915). Questo principio è in sé evidente e indiscutibile. La questione concreta di chi si trovi effettivamente in modo ostinato in una tale situazione di perdizione non è però ancora decisa. Per dare risposta a tale questione bisogna distinguere bene le diverse situazioni ed esaminare ogni singola situazione con comprensione, discrezione e tatto (FC 4; 84). Non si può parlare di un’oggettiva situazione di peccato senza considerare anche la situazione del peccatore nella sua singolare dignità personale. Per questa ragione non può esserci alcuna soluzione generale del problema, ma solo soluzioni singolari. Ciò risulta dal concetto di peccato grave. Il peccato grave non è costituito solo dalla materia gravis, l’azione contraria al comandamento di Dio in una cosa importante; di esso fa parte anche il giudizio della coscienza personale, l’assenso della volontà, nella quale per Tommaso l’intenzione della volontà è assolutamente decisiva; infine è decisiva la considerazione delle concrete circostanze. Su tutto ciò non si può decidere in termini generali. Perciò la sapienza della chiesa conosce accanto al foro giuridico esterno il foro interno del sacramento della penitenza. Ci troviamo dunque di fronte alla via paenitentialis. Non si tratta di una nuova invenzione, ma si colloca, come di recente è stato dimostrato, del tutto in linea con la comprensione del matrimonio di Tommaso d’Aquino e della tradizione che a lui si richiama, in particolare del Concilio di Trento[25]. Con la via paenitentialis non si intende l’imposizione di pesanti pene, ma del processo, doloroso e tuttavia salutare, della chiarificazione e del nuovo orientamento dopo la catastrofe della separazione, che è accompagnata da un esperto confessore mediante un colloquio che ascolta pazientemente e aiuta a fare chiarezza. Questo processo deve condurre l’interessato a un giudizio onesto sulla propria situazione, in cui anche il confessore matura un giudizio spirituale, per poter far uso della potestà di legare e di sciogliere in modo adeguato alla situazione. Come in altre questioni di grande importanza ciò accade, secondo l’antica prassi della chiesa, sotto l’autorità del vescovo (cfr. Instrumentum laboris, n. 123). Rimane per me incomprensibile come si sia potuto obiettare a questa proposta che essa significa un perdono senza conversione. Ciò sarebbe effettivamente insensato dal punto di vista teologico. Ovviamente il sacramento della penitenza implica da parte del penitente il pentimento e la volontà di vivere nella nuova situazione con tutte le sue forze secondo il Vangelo. Nell’assoluzione non è giustificato il peccato, ma il peccatore che vuole convertirsi. La comunione sacramentale, cui l’assoluzione apre di nuovo la strada, deve dare alla persona che si trova in una difficile situazione la forza per perseverare sul nuovo cammino. Proprio i cristiani in situazioni difficili hanno bisogno di questa sorgente di forza che è per loro il pane della vita. Un tale rinnovamento della prassi penitenziale della chiesa, al di là dell’ambito dei divorziati risposati, potrebbe avere l’effetto di un segnale per il necessario rinnovamento della prassi penitenziale che nella chiesa di oggi è a terra in modo deplorevole. Sarebbe profondamente farisaico ritenere che questo riguardi solo i cristiani divorziati e risposati. In occasione del ricordo dell’affissione delle tesi di Lutero, che cinquecento anni fa ha rappresentato l’inizio della Riforma, i cristiani cattolici ed evangelici hanno tutte le ragioni per lasciarsi dire dalla prima tesi di Lutero che tutta la vita di un cristiano deve essere una penitenza.      6. Ermeneutica della continuità ed eterna novità del Vangelo In conclusione la questione: questo sviluppo della prassi penitenziale della chiesa sarebbe da comprendere come una rottura con la dottrina e la prassi della chiesa oppure non piuttosto nel senso dell’ermeneutica della continuità? Un’ermeneutica della continuità rettamente compresa, nel senso in cui l’ha proposta papa Benedetto nel noto discorso per gli auguri natalizi del 2005, infatti non esclude, ma implica riforme pratiche e quindi un elemento di discontinuità. Essa è una ermeneutica della riforma. La verità della rivelazione non è un sistema rigido scolpito nella pietra e scritto su tavole di pietra, ma è la lettera d’amore del Dio vivente, scritta nei cuori di carne (2 Cor 3, 3). Secondo Tomaso d’Aquino il vangelo in ultima analisi e primariamente è lo Spirito santo infuso nel cuore dei fedeli attraverso la fede di Cristo. Dio con il suo Spirito è sempre in dialogo con la sua chiesa, la sposa del suo Figlio (DV 8), per introdurla sempre di nuovo nella verità tutta intera (Gv 16, 13) e dischiudere il vangelo, che è sempre lo stesso, nella sua eterna novità. La misericordia è questa eterna novità. In essa risplende la sovranità di Dio, con cui egli è fedele sempre di nuovo al suo essere, che è amore (1Gv 4, 8), e al suo patto. La misericordia è la rivelazione della fedeltà e dell’identità di Dio con se stesso e così al tempo stesso dimostrazione dell’identità cristiana.[30] Perciò la misericordia non toglie la verità cristiana. Essa stessa è una verità rivelata, che è strettamente legata con le fondamentali verità della fede, l’incarnazione, la morte e risurrezione di Cristo, e senza di esse cadrebbe nel nulla (cfr. Instrumentum laboris, n. 68). D’altra parte, tutte queste verità senza la dolcezza della misericordia si trasformerebbero in un sistema rigido e freddo. La misericordia le fa risplendere sempre di nuovo in modo sorprendente e conferisce sempre di nuovo alla fede forza di irradiazione. Solo così la nuova evangelizzazione può riuscire. L’ammonimento a «rimanere nella verità di Cristo» include l’altro a «rimanere nell’amore di Cristo» (Gv 15,9). Si tratta di fare la verità nella carità (Ef 4,15).
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