giovedì 27 novembre 2014
Da venerdì a domenica la visita di Francesco in un Paese ricco di storia, anche cristiana, che sta cambiando pelle. L'attesa è grande nelle Chiese cattolica e ortodossa. A Istanbul incontrerà il Patriarca Bartolomeo in occasione della festa di Sant’Andrea.

IL PROGRAMMA DELLA VISITA 
EDITORIALE La Chiesa, le divisioni, l'ora attesa di Stefania Falasca 
REPORTAGE Ecumenismo, sfida per il «piccolo gregge»
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È una Turchia nervosa e carica di tensioni quella che si prepara ad accogliere Papa Francesco da venerdì a domenica. Ad Ankara incontrerà il neo-eletto presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, il premier Ahmet Davutoglu e altre importanti personalità politiche. A Istanbul vedrà il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I. Era stato proprio il capo della Chiesa ortodossa, in marzo, a invitare Papa Bergoglio nel Paese della Mezzaluna. Erdogan, poche settimane dopo la sua elezione a capo dello Stato avvenuta lo scorso agosto, ha dato seguito all’invito ufficiale. Sarà un viaggio importante e impegnativo per il Pontefice. La Turchia ospita circa 53mila cattolici, garantendo loro la libertà di culto, sulla quale però pesa il divieto di proselitismo e soprattutto il mancato riconoscimento giuridico che distingue i cattolici da altre minoranze religiose, come gli armeni e gli ortodossi, che rientrano nel Trattato di Losanna. La vita quotidiana dei cristiani in Turchia scorre serenamente, anche se preoccupano le notizie che arrivano dal Vicino Oriente, con l’Is ormai sul confine con la Mezzaluna, e non si è spento il ricordo dei brutali omicidi di don Andrea Santoro, assassinato a Trebisonda nel 2006, e del Vicario apostolico dell’Anatolia, Luigi Padovese, barbaramente ucciso a Iskenderun, nell’est del Paese, nel giugno 2010. Atti di fanatismo, di cui sono stati puniti gli esecutori materiali ma mai trovati i mandanti. Sono mesi difficili per la Turchia, sia per quanto riguarda la politica estera, sia per la situazione interna. Da anni Ankara ha iniziato a gestire la sua presenza sullo scacchiere internazionale in modo sempre più autonomo. Dal 2009, quando l’attuale premier, Ahmet Davutoglu, è diventato ministro degli Esteri, l’agenda è cambiata progressivamente, dando sempre più importanza alle relazioni diplomatiche con i Paesi del Golfo e del Nordafrica. Una politica di stampo “neo-ottomano”, come l’ha definita lo stesso Davutoglu, volta a ripristinare l’influenza sulla stessa area su cui si estendeva il vecchio impero e a incamerare nuove opportunità. Una strategia che, se sulle prime sembrava vincente, nel lungo termine si è rivelata la causa di tutti i problemi del Paese. La crisi libica e soprattutto quella siriana hanno fatto emergere la volontà crescente dell’esecutivo, allora guidato dall’attuale presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, di gestire le situazioni internazionali in autonomia pressoché totale, staccate non solo dagli Stati Uniti, ma sempre più spesso anche dall’Unione Europea, che pure dovrebbe rappresentare il primo interlocutore per Ankara, visto che nel 2005 ha intrapreso un lungo e sempre più difficile cammino verso Bruxelles. Con l’avvento delle cosiddette primavere arabe, il Paese ha iniziato a manifestare la volontà di avere un peso sempre più rilevante nella regione, pensando di poter scalzare l’Egitto da suo ruolo di “player” mediorientale. La situazione siriana, in particolare, è quella su cui la Turchia ha osato di più, suscitando scetticismo e talora palese contrarietà, da parte della comunità internazionale. Il principale obiettivo, in questo momento, è la caduta del presidente alauita Bashar al-Assad. Un astio quasi personale, quello del presidente Erdogan, motivato ufficialmente da questioni umanitarie e di pace nell’area, ma che secondo molti analisti porta in sé una spiegazione ben diversa: la Turchia, Paese musulmano ma a forte impronta laica, sarebbe entrata a pieno titolo e con conseguenze devastanti nella lotta fra l’islam sunnita e quello sciita. Questo spiegherebbe il sostanziale patto di non belligeranza con lo Stato islamico, che sta tenendo sotto assedio da ormai due mesi la cittadina curda di Kobane, in territorio siriano e a poche centinaia di metri dal confine, senza che Ankara intervenga con l’esercito. Il Califfato rappresenta la maggiore minaccia per Assad, che Erdogan vorrebbe vedere deposto al più presto. Un atteggiamento, quello turco, che sta irritando sempre di più gli Stati Uniti, di cui la Turchia è sempre stata alleato importante, e che devono anche fare i conti con la frattura, non ancora sanata, fra la Mezzaluna e Israele. L’Unione Europea, anche a causa della questione mai risolta dell’isola di Cipro – divisa in due in seguito all’invasione dell’esercito turco nel 1974 – allunga i tempi del già problematico accesso del Paese nel club di Bruxelles. Come si vede, è una situazione gravida di tensioni, che si riflettono anche sulla tenuta interna. In agosto Recep Tayyip Erdogan è diventato il dodicesimo presidente della Repubblica, il primo scelto con elezione diretta. La sua vittoria è arrivata dopo oltre un anno di scontri nel Paese. Prima le proteste di Gezi Parki contro la sua virata autoritaria, poi gli scandali sulla corruzione in cui i figli di Erdogan e i suoi più fedeli collaboratori sono rimasti coinvolti. Per mesi la Turchia è stata interessata da una vera e propria lotta interna fra le due ali della destra turca. La prima rappresentata da Erdogan e la seconda, uscita ormai ufficialmente sconfitta, moralmente capitanata da Fetullah Gulen, il filofoso islamico che vive in autoesilio negli Stati Uniti ed è accusato di controllare buona parte della polizia e della magistratura. Il timore dell’opposizione è una deriva autoritaria che pesi sulla vita privata dei turchi e alcune dichiarazioni del presidente sulla parità fra uomo e donna fanno preoccupare la componente più laica del Paese. C’è poi il nodo irrisolto della minoranza curda, che conta circa 15 milioni nel Paese e con la quale Erdogan dal 2009 sta portando avanti negoziati coraggiosi che però non hanno ancora prodotto i risultati sperati. La situazione è in stallo da parecchi mesi e il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, ha più volte minacciato la ripresa della lotta armata se non verrà trovata una soluzione. La Turchia ha già sperimentato le possibili conseguenze di questa eventualità il mese scorso, durante le prime fasi dell’assedio di Kobane. Migliaia di persone sono scese in piazza nell’est del Paese per manifestare contro le politiche del governo, il mancato aiuto ai curdi siriani, il lento stato di avanzamento del negoziato e in genere la condizione dei diritti della minoranza. Il bilancio è stato di 40 vittime e centinaia di feriti, provocati non dagli scontri con la polizia, ma da una pericolosa guerra fra bande che vede da una parte i curdi e dall’altra movimenti islamici o ultranazionalisti.È un Paese dove si agitano tensioni stiscianti, ben dissimulate da un sistema di potere forte e da un benessere economico che per il momento tiene, nonostante la crisi. Ma che vede anche crescere le preoccupazioni sulla libertà di espressione e sulla deriva conservatrice. In questa Turchia, domani, arriva Papa Francesco.
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