sabato 4 febbraio 2012
​Le corse, il desiderio di superare i propri limiti, le passioni e l’ambizione di tanti adolescenti vengono usati a fini di lucro dal mondo dello sport e dal marketing. Che non insegna loro alcun valore. Ma la vera giovinezza risiede e fiorisce in chi non si chiude alla vita.
IL TESTO INTEGRALE DEL MESSAGGIO DEI VESCOVI
Due modi, anzi uno di Alessandro D'Avenia
Il male all'alba di Davide Rondoni
COMMENTA E CONDIVIDI
Giovani aperti alla vita, sembrerebbero: entusiasti, di successo, pronti a mettersi in gioco, a superare i propri limiti. Campioni nello sport e nella vita. Ma è solo un’illusione: perché la vita se la giocano ogni volta che scendono in pista: proprio per questo – per il loro coraggio e la loro vitalità – i campioni dello sport sono ammirati dai ragazzi. Che li prendono a esempio, li seguono con fedeltà, ne condividono le gioie e i dolori. Piangono per loro quando il gioco finisce in tragedia e la vita chiede il conto. «Educare i giovani a cercare la vera giovinezza, a compierne i desideri, i sogni, le esigenze in modo profondo – scrive la Conferenza episcopale nel messaggio per la Giornata della vita, edizione 2012 – è una sfida oggi centrale. Se non si educano i giovani al senso e dunque al rispetto e alla valorizzazione della vita, si finisce per impoverire l’esistenza di tutti». È ancora vivissimo, per esempio, il dolore per la scomparsa di Marco Simoncelli, qualche settimana fa a Sepang, durante il Gran premio in Malesia. La sua morte – a soli 24 anni – è stata considerata uno degli effetti collaterali e indesiderati di chi vive facendo quel mestiere, che impone di dover affrontare e saper gestire il rischio della morte. È nelle regole del gioco. «A me invece la morte di Marco è sembrata uno spreco spaventoso che mi obbliga, come professionista e come padre, a invitare gli adulti a pensare che forse è necessario mettere in crisi queste regole»: Alberto Pellai, medico e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, si occupa di prevenzione in età evolutiva. E si domanda se mettere in mano ai bambini e poi agli adolescenti moto di potenza sempre maggiore sia la cosa migliore che gli adulti possono fare per ragazzi travolti dal loro, in parte normale, in parte invece estremo, sensation-seeking. Già, perché come naturale i nostri ragazzi cercano emozioni forti, hanno una personalità che più facilmente spinge chi la possiede alla ricerca di comportamenti estremi che provocano scariche di adrenalina in eccesso. «Si tratta di soggetti a rischio, ai quali gli adulti devono avvicinarsi con forza e delicatezza allo stesso tempo e insegnare a reindirizzare tale attitudine di personalità verso qualcosa che li aiuti a immergersi in attività cariche di emozioni, ma prive di pericoli. Lo si deve fare per proteggerli – spiega Pellai – ma anche per sostenerli durante l’adolescenza, fase della vita in cui il cervello vive di emozione e spesso dimentica la ragione». Una riflessione fatta ben immaginando il dolore dei genitori di quanti sono rimasti sull’asfalto (dei circuiti come delle strade), macinati da un ingranaggio che punta solo al guadagno. E forse senza essere mai stati messi nella condizione ci chiedersi cosa fosse la cosa migliore.Sempre tornando alla morte dell’indimenticabile Simoncelli, nelle librerie ha spopolato la sua biografia, Diobò che bello, in cui il pilota racconta una lunga serie di incidenti realizzati non solo in pista, ma anche fuori. A casa, con la bici, con la moto del papà: fin da piccolo il suo spirito indomito lo ha messo nelle condizioni di farsi parecchio male a bordo di veicoli dotati di ruote. «Probabilmente Marco era quello che noi professionisti chiamiamo sensation seeker, ovvero un cercatore di emozioni forti – continua Pellai –. E penso che la morte di Marco debba essere raccontata ai nostri figli non solo come un indesiderato effetto collaterale, inevitabile nel mondo del motociclismo, bensì come qualcosa che forse si doveva, o almeno si poteva prevenire. Se Simoncelli è finito molte volte in ospedale per incidenti multipli su tutti i mezzi dotati di ruote e motori, se la motorizzazione civile gli aveva tolto la patente pochi mesi dopo avergliela assegnata perché la sequenza di incidenti in cui si era trovato coinvolto lo aveva reso pericoloso per sé e per gli altri – prosegue Pellai – penso che il mestiere di noi adulti sia quello di aiutare un ragazzo con una tale propensione al rischio a conquistare il rispetto per la propria vita, che è un dono prezioso e che facendo le cose sbagliate rischia di trasformarsi in uno spreco o in un germoglio mai fiorito». Insomma, casi singolari a parte, i nostri ragazzi in cerca di emozioni forti hanno bisogno di adulti che li aiutino a scegliere l’atletica, la chitarra, lo scoutismo, l’impegno politico, i tuffi dal trampolino. E magari non la folle corsa resa possibile dai motori sportivi. Il mercato, gli enormi interessi commerciali che ruotano intorno alle competizioni, continuano a fare immaginare ai nostri figli che la loro voglia di emozione ed eccitazione trovi su una moto potente le ali che regalano la dose di autonomia e libertà che vanno cercando. «In queste settimane in nessuna intervista, in nessun commento ho sentito questo genere di riflessioni. Solo assoluzioni. Io – spiega il medico psicoterapeuta – non mi sento di assolvere il mondo dei motori, delle mini-moto, delle gare sportive in cui giovanissimi corrono come pazzi su circuiti molto pericolosi. E penso che tutto ciò succeda perché ci sono interessi e c’è un mercato che anche in questo caso nei nostri figli non vede persone da formare ed educare, ma troppo spesso solo consumatori da spremere. Fino all’ultima goccia. Di soldi». O di vita.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: