martedì 20 marzo 2012
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«In nome del mio popolo non tacerò». «Poiché il cielo rosseggia». Due citazioni della Bibbia, due titoli, due documenti. Denuncia e speranza. In mezzo venti anni. Dalla morte di don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe ucciso dai killer della camorra il 19 marzo 1994, giorno del suo onomastico, e che nel Natale 1991 aveva presentato, assieme agli altri parroci della Forania, un forte documento di denuncia della camorra («Una forma di terrorismo che incute paura») e di invito all’impegno («Le nostre comunità hanno bisogno di nuovi modelli di comportamento»). Parole e sacrificio non vani. Oggi (ieri per chi legge, ndr) la sua chiesa, San Nicola, è stracolma di casalesi. Per la messa di ricordo presieduta dal vescovo di Aversa, Angelo Spinillo e concelebrata da decine di sacerdoti. Ma anche per la successiva presentazione di un documento, firmato dal vescovo e dai parroci, che rilancia le parole di don Peppe,  «per continuare il cammino iniziato allora» alla luce di quanto accaduto in questi anni.Sacrificio, dunque, perché è tale, sottolinea il vescovo, «la violenza con cui si toglie la vita a un sacerdote». «Una violenza disperata», la definisce monsignor Spinillo, contro «don Peppino», per «prevalere sulla vita degli altri, su chi è visto come ostacolo. E un sacerdote – afferma con nettezza il vescovo – è sempre un ostacolo per le logiche dell’interesse e del profitto». Don Peppe ostacolo per il potere camorrista.

Perché, come si legge nel nuovo documento, la gente «accolse positivamente», quanto scritto allora dal parroco e «pensò che finalmente si potesse parlare senza paura, cominciando davvero a sfatare la reticenza fino ad allora avuta nel pronunziare la parola camorra». Ma altri storcevano il naso. «Alcuni intellettuali, professionisti e qualche politico, esortarono noi sacerdoti a ritrattarlo, perché negli ambienti della camorra la cosa non era piaciuta». Non solo loro... Così con netta autocritica il documento ricorda anche come «i confratelli sacerdoti della Diocesi, pur condividendo in pieno l’iniziativa, erano preoccupati ed espressamente dicevano che eravamo stati eccessivamente coraggiosi». Da allora molto è cambiato. «È mutata, soprattutto, la coscienza, da parte dello Stato e dei singoli cittadini circa la pericolosità, vastità e pervasività della criminalità organizzata». Così, proprio «la presa di coscienza, iniziata con l’assassinio di don Peppino Diana, ha aperto un impegnativo dibattito nella società civile: scuola, Chiesa e associazioni hanno promosso tante iniziative positive per il ripristino della legalità». Ma «non è stato e non è facile lottare contro una mentalità così insidiosa e radicata».  Da questo discendono alcune «legittime preoccupazioni». In primo luogo «talvolta i rappresentanti delle istituzioni pubbliche sono risultati coinvolti in azioni illegali smentendo, nei fatti, quanto affermato con le parole». In secondo luogo, per quanto riguarda il ruolo dello Stato, «una mera repressione» si può rivelare «insufficiente nello sconfiggere le cause del fenomeno criminale». Bisogna «investire di più sull’educazione e sullo sviluppo» e «debellare le piaghe dell’ignoranza, della mancanza di senso civico e il disinteresse per il bene comune che tanta parte hanno avuto nell’affermazione ed espansione della camorra in queste zone». C’è poi da intervenire sulla «drammatica situazione occupazionale» che apre «spazi ad attività illegali». Anzi, denuncia il documento, i disoccupati «giungono a rimpiangere pericolosamente i tempi in cui “la camorra dava loro da vivere”». Bisogna «ridare fiducia ai nostri giovani» che «non riescono a scrollarsi di dosso il marchio che ormai caratterizza l’essere casalese». Anche perché i mezzi di informazione «continuano a non dare la giusta importanza agli eventi positivi presenti nei nostri territori». Ma come Gesù che invitava a vedere nel rosseggiare del cielo il segno del bel tempo, i sacerdoti casalesi e il loro vescovo, invitano a guardare «i segni del rinascere della nostra terra, delle nostre comunità nelle quali vogliamo essere partecipi di una nuova primavera di vita». Così, concludono, «vogliamo essere vicini ai tanti che si impegnano nel servizio della società e cooperano al bene comune; ai tanti che tendono a sostenere chi non ha alcun sostegno o tutela alla propria vita; ai tanti che testimoniano e propongono un’appassionata attenzione alla pulizia da ogni inquinamento; ai tanti che mostrano coerenza nel vivere con onesto senso della giustizia il proprio impegno di cittadini». Perché «il sacrificio di don Peppino Diana è annunzio che genera desiderio di vera libertà, è speranza di veder nascere nuovi rapporti di amicizia tra uomini veri».AUGUSTO, IL TESTIMONE CHIAVE E L'AMICO: «PER LUI NON HO ACCETTATO IL SILENZIO»«Don Peppe così è ancora più vivo. Questo nuovo documento dà ancora più forza a quello di dieci anni fa, che è ancora attualissimo. La semplicità di quel prete aveva sconvolto il territorio ». A parlare è Augusto Di Meo, amico del sacerdote, testimone fondamentale di quell’omicidio. Era in parrocchia quel giorno per fare gli auguri al parroco e per organizzare poi la serata. Vide il killer e raccontò tutto, contribuendo in maniera determinante alla sua condanna. Poi 3 anni a Spello con la famiglia e quindi la decisione di tornare perché lì non riusciva a lavorare. «Avevo paura e anche ora ho paura. Ma quello che mi pesa di più è l’indifferenza nei mei confronti. Nessuno, e parlo delle istituzioni, mi ha detto "grazie"». Oltretutto non ha ancora il riconoscimento ufficiale di testimone di giustizia.La vita non è facile per chi non ha accettato il silenzio. Ma Augusto non ha cambiato idea. «Andrei ancora a testimoniare e non solo perché don Peppe era un amico». Oggi, 19 marzo per lui non è la “festa del papà”. «Tutto passa in secondo piano. Prima di tutto viene don Peppe. Quel giorno lo vivo come se fosse oggi». Così alle 7.30 è andato al cimitero, «ho aperto la cappella e ho recitato il rosario». Scelte nette, come le immagini che campeggiano nel suo laboratorio di fotografia: don Peppe, don Puglisi, Falcone, Borsellino, lui assieme al procuratore Piero Grasso. «Da quando sono tornato faccio educazione alle lagalità nelle scuole». Al suo fianco Libera, il Comitato don Peppe Diana, che proprio ieri gli assegnato il premio intitolato al sacerdote, la magistratura e le Forze dell’ordine. Non gli amministratori locali. «Ma di questo sono orgoglioso». E c’è anche chi continua a consigliare la gente a non andare nel suo laboratorio. Ma Augusto è ottimista: «Dall’omcidio di don Peppe la gente ha cominciato a capire. Ma bisogna lavorare di più, soprattutto coi ragazzi. Non aspetto miracoli. Per la mia terra ci vuole l’impegno di tutti. Ma quello che don Peppe ha seminato sta cominciando a dare frutti. Siamo sulla buona strada».

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