martedì 19 giugno 2012
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​Immaginava le sue fondazioni come un «ponte» fra Dio e l’uomo dove il silenzio si unisse alla vita di fraternità e poi si trasformasse in dialogo con il mondo. Ed è così che mille anni fa ha plasmato Camaldoli san Romualdo, l’eremita-pellegrino originario di Ravenna che ha trascorso gran parte della vita promuovendo comunità monastiche e riformando eremi o cenobi.L’ultima sua «creatura» nasce sull’Appennino toscano in una proprietà donata dal vescovo Tedaldo di Arezzo. La radura si chiamava «campo di Maldolo». La storia non ha mai accertato chi o cosa fosse il Maldolo, anche se la tradizione vuole che si trattasse del conte proprietario del terreno. «A Camaldoli – spiega dom Alessandro Barban, priore generale della Congregazione camaldolese dell’Ordine di san Benedetto – Romualdo realizza il suo ideale: quello in cui il tratto cenobitico si affianca all’esperienza del deserto, anche fisicamente». Ecco perché, su questi monti, i «figli» del santo si dividono ancora fra eremo e monastero che distano qualche centinaia di metri.Oggi la Congregazione celebra il padre fondatore nel giorno in cui cade la sua memoria liturgica. Un santo che, insieme con il suo movimento, «ha favorito non solo il rinnovamento spirituale ma anche umano», scrive Benedetto XVI nella lettera con cui designa il cardinale Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, come suo inviato speciale alle celebrazioni del millenario di Camaldoli.Questa mattina il porporato presiederà alle 11 l’Eucaristia nella chiesa dell’eremo per la solennità di san Romualdo. «Sarà un grande rendimento di grazie per l’intera famiglia camaldolese sparsa nel mondo», afferma Barban. E sarà anche l’occasione per leggere con lo sguardo di oggi il lascito del santo che nella Regola dettata al novizio Giovanni chiedeva di sedersi nella cella «come in paradiso». «Per l’uomo del nostro tempo – sottolinea il priore generale – Romualdo è un richiamo alla dimensione interiore. La sua storia ci dice che occorre ritrovarci prima di tutto come persone». Punto di riferimento è la preghiera. «Unica via, il salterio», raccomandava il santo ai suoi seguaci. «Il libro dei Salmi – dichiara Barban – è un cammino di conoscenza del Signore e di conversione personale che mostra un volto di Dio talvolta inaspettato per chi vive in questo inizio di secolo». Oltre alla solitudine e alla vita comunitaria, la terza «colonna» del spiritualità camaldolese è l’annuncio del Vangelo. «Per noi monaci – chiarisce il priore generale – evangelizzare significa ospitare chi bussa alle nostre porte. In un frangente dominato dall’aridità della coscienza c’è bisogno di ricreare un humus di ascolto e di incontro. E di fatto l’accoglienza aiuta a preparare quel terreno che consente alla voce di Dio di attecchire e di plasmare un’identità cristiana che sia presenza positiva nella Chiesa e nella società».L’ospitalità trova le sue radici nel carisma di san Benedetto che la Congregazione custodisce. «Romualdo – racconta Barban – si forma sulle orme del santo di Norcia nel monastero di Sant’Apollinare in Classe. E non ha mai tralasciato la sua Regola, seppur abbia operato una profonda riforma del monachesimo che in Camaldoli ha trovato la sua sintesi». E, per lui, la fondazione in Casentino era un collegamento fra Oriente e Occidente. «Se nella Chiesa latina Romualdo si è formato, il santo ha attinto la sua linfa spirituale dall’Oriente studiando in particolare i padri del deserto». E sul suo esempio Camaldoli continua a essere terrazza di confronto. «È una delle strade che abbiamo mutuato dal Vaticano II. La riflessione conciliare ci ha spinto a incontrare sia le altre confessioni cristiane, sia il mondo ebraico, sia le altre fedi». Il millenario coincide con la ricorrenza dei cinquant’anni dall’apertura del Concilio e con l’inizio dell’Anno della fede. «Il Vaticano II – conclude Barban – è un’eredità preziosa e ancora estremamente viva che ha urgenza di un continuo approfondimento. E l’Anno della fede è un’intuizione lungimirante del Papa che ci esorta a riscoprire il senso profondo del nostro credere. E per farlo serve attingere dalla Scrittura, dai Sacramenti e dalla nostra appartenenza ecclesiale».
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