lunedì 29 giugno 2015
Per il cardinale vicario «serve un esame di coscienza per una rinascita morale». Su rom e immigrati «necessaria cultura dell’accoglienza». Le autorità richiamate al senso di responsabilità.
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Roma «ha bisogno di una vera e propria rinascita morale e spirituale». A Roma è necessaria «una seria e consapevole conversione dei cuori per una rinascita spirituale e morale» nonché un rinnovato impegno per «costruire una città più giusta e solidale, dove i poveri, i deboli e gli emarginati siano al centro delle nostre preoccupazioni e del nostro agire quotidiano». Queste parole di papa Francesco, pronunciate lo scorso 14 giugno e il 31 dicembre 2014, quando era già scoppiata l’inchiesta denominata "Mafia Capitale", sono «un vero e proprio invito a un esame di coscienza che tutti dobbiamo fare per una rinnovata coerenza di vita nel proclamare e praticare la legalità, la giustizia e la solidarietà». Così il cardinal vicario Agostino Vallini, che Avvenire ha intervistato alla vigilia della solennità dei santi Pietro e Paolo, patroni della Città Eterna.Eminenza, è un momento difficile per Roma. Qual è il clima sociale che coglie visitando le parrocchie? Sarò franco. Colgo un clima di diffuso disagio, di scontentezza e in certi momenti anche di irritazione, da parte della gente, in maggioranza gente perbene, onesta e laboriosa, che non vorrebbe vedere l’immagine di Roma oscurata dal degrado e da ricorrenti vicende di corruzione e di malaffare che toccano anche le istituzioni, mentre tante famiglie soffrono per il perdurare della crisi economica e della mancanza di lavoro.E lei cosa risponde?Reagire. Bisogna reagire con le tante risorse positive, che sono patrimonio di Roma, alla rassegnazione, allo scetticismo o alla deriva dell’indifferenza di chi pensa che i furbi e le clientele trovano sempre come sopravvivere. E chi sta a capo e rappresenta il popolo deve meritare la fiducia dei cittadini, non a parole ma con l’onestà e il servizio al bene comune.In questi ultimi mesi lei è intervenuto per stigmatizzare con parole forti due vicende che hanno avuto ampio risalto nel circuito mediatico: la chiusura all’accoglienza degli immigrati a Tor Sapienza e la protesta contro i Rom.L’ho fatto avendo ben impresso in mente l’appello lanciato da papa Francesco per affrontare l’emergenza sociale degli immigrati promuovendo "la cultura dell’incontro" e rifiutando quella dello scontro. In un mondo in rapida evoluzione l’unica cultura vincente è quella del dialogo per superare il sospetto e il pregiudizio e costruire una convivenza sicura, pacifica ed inclusiva.Come si muove la comunità ecclesiale in questo campo?La diocesi e le parrocchie danno sollievo con una molteplicità di servizi a tante persone, sempre più numerose, afflitte da vecchie e nuove povertà. Ma è urgente sviluppare una cultura che faccia incontrare le diverse componenti sociali e aiuti a farsi carico della complessità dei processi e delle mutazioni sociali.In che senso?Il fenomeno dell’immigrazione, se ben integrato, costituisce una risorsa e un fattore di sviluppo sociale ed anche economico. I dati statistici ed economici lo confermano. Certo, sono necessarie politiche oculate, in particolare verso i rifugiati, che oggi costituiscono una grave emergenza sociale. Non dobbiamo dimenticare le cause che hanno dato origine a questo esodo forzato da tanti paesi: si tratta di migliaia e migliaia di uomini e donne, che fuggono dalla disperazione della guerra e della fame in cerca di pace, dignità e futuro. Nessuno era preparato a fronteggiare una simile emergenza: né i cittadini, né le istituzioni. Eppure esiste, è grave, è difficile da gestire, ma non possiamo chiuderci dicendo: ci pensino gli altri; né si risolve chiudendo le frontiere.L’afflusso degli immigrati comunque si concentra nelle zone più periferiche e meno abbienti della città, dove il rischio diventa quello di una "guerra tra poveri"...È vero. Tanti quartieri della città sorti nei decenni passati sull’onda dell’abusivismo edilizio sono alveari umani, quartieri dormitorio, dove la gente non si conosce, non socializza, non sente di appartenervi. E dove dilaga lo spaccio della droga, la delinquenza, la prostituzione, i servizi sociali sono scarsi, non esistono presìdi che garantiscano la legalità e la sicurezza. Questo coacervo di problemi crea stati d’animo difficili da gestire e la gente è sfiduciata. Ma non dobbiamo cedere alla tentazione dello scontro. Con pazienza occorre abbattere muri e costruire ponti. E creare una cultura dell’accoglienza e dell’inclusione sociale, in un tempo di grave crisi economica, è una vera sfida, che tutti - istituzioni, chiesa, corpi sociali, volontariato - dobbiamo affrontare con impegno per il bene comune. Le istituzioni insomma dovrebbero promuovere politiche inclusive, migliorando la vita nelle periferie.L’altro segnale del malessere che serpeggia in città nasce dalla convivenza con la popolazione Rom che vive nei campi. Esacerbata dal tragico episodio nel quale ha perso la vita una donna filippina, investita da un’auto guidata da un giovane Rom.Il mondo va sempre più globalizzandosi e Roma da anni è una città multietnica. I Rom sono qui da generazioni e la gran parte sono giovani famiglie che con i loro figli sono nati a Roma. Bisogna operare per far crescere, nel rispetto della legalità, la cultura dell’inclusione sociale e non quella del rifiuto e del disprezzo. Ma come affrontare il problema?I campi di accoglienza, comprensibili come soluzioni di emergenza e temporanee, non si giustificano se diventano di fatto definitivi. Sono accampamenti dove il disagio, la lotta tra etnie, l’emarginazione sociale ghettizzano le persone, la gran parte delle quali soffrono, subiscono e si adattano, non potendo e spesso non sapendo fare altro, alla sopravvivenza e non di rado all’illegalità e alla devianza.E quindi?Le istituzioni dovrebbero operare congiuntamente per superare la marginalità, nella fiducia che molte di queste persone - lo posso testimoniare personalmente - vogliono uscire da questa condizione, avere un lavoro, affittare una casa e vivere dignitosamente senza sottoporsi all’umiliazione di chiedere l’elemosina o di darsi ad altri espedienti per sopravvivere. Bisogna intervenire sul degrado con due forze convergenti: l’inclusione sociale e la legalità.Concretamente?Il Comune dovrebbe anzitutto aprire sportelli per la regolarizzazione dei documenti, sviluppare di più la scolarizzazione dei bambini e dei ragazzi, promuovere centri di formazione per donne e uomini in vista dell’inserimento nel mercato del lavoro, inserire i nuclei familiari nelle graduatorie per l’assegnazione delle case popolari alla pari degli altri cittadini. Non serve l’assistenzialismo; servono processi sociali educativi e di responsabilizzazione delle persone, che gioverebbero a tutti e alla pace sociale. La diocesi al riguardo ha messo in campo da anni qualche iniziativa con buoni risultati. Se ne è parlato anche nella bella Festa della solidarietà che si sta celebrando in questi giorni in piazza San Giovanni.I problemi di una grande metropoli come Roma non possono però essere risolti semplicemente dalle autorità municipali…Certamente. Occorre il concorso del governo centrale e soprattutto dell’Europa. Dell’Europa che vorremmo, ma che purtroppo è ancora un auspicio. Quella di oggi infatti è povera di ideali e chiusa alle sfide del tempo. Basti vedere come si comportano gli Stati nell’affrontare la grave questione degli immigrati. Costruire l’Europa dei popoli, dei valori condivisi, delle culture come ricchezze reciproche è un impegno grande, che ha bisogno di tempo e di spiriti illuminati che aiutino a superare individualismi e campanilismi. La visione culturale che sostiene la politica europea è la razionalità scientifica, figlia dell’illuminismo, e l’economia. L’Europa insomma deve ritrovare la sua anima. E il discorso di papa Francesco al Parlamento Europeo del 25 novembre scorso può aiutare molto a promuovere un nuovo umanesimo che ponga l’uomo al centro delle relazioni umane e sociali e delle politiche del continente.E intanto per Roma cosa si può suggerire?Domenica scorsa il professor Andrea Riccardi, proprio su Avvenire, suggeriva di aprire, per così dire, una stagione "costituente". Mi sembra una idea interessante. È un invito alle forze intellettuali, sociali, spirituali della città ad aprire un dialogo, un confronto costruttivo per ridare a Roma, in unità di intenti, una "visione" di città universale, che è poi la sua vocazione. E l’aiuti così a guarire dalle malattie da cui è afflitta.
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