venerdì 1 luglio 2016
L’arcivescovo Bertolone, postulatore della causa di beatificazione del sacerdote palermitano ucciso nel settembre 1993 dalla mafia per il suo impegno in favore dei giovani, ha ripercorso in un libro la vita e il servizio di padre Pino Puglisi.
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Proclamato beato nel 2013 con il riconoscimento del suo martirio in odio alla fede per mano della Piovra, il sacerdote palermitano è testimone di un ministero vissuto alla luce della Parola di Dio, con i piedi piantati per terra, avendo il coraggio della denuncia sociale Il libro dell’arcivescovo Bertolone ne ripercorre le tappe principali Un parroco “fastidioso” Con il rapido diffondersi di numerose attività, arrivano segnali d’insofferenza da parte della mafia nei riguardi del parroco di Brancaccio, Pino Puglisi. Un’intolleranza che, forse, rinfocola a seguito della fiaccolata antimafia, che si svolge il 21 maggio 1993 per le strade della parrocchia, nel primo anniversario della morte del giudice Falcone. Infatti il giorno seguente, 22 maggio, si verifica l’incendio doloso del furgone della ditta che stava restaurando l’edificio parrocchiale e, nella notte tra il 28 e il 29 giugno successivi, viene appiccato l’incendio alle porte di casa di tre membri del Comitato intercondominiale. Nel luglio precedente l’assassinio 56° compleanno di Puglisi - si era svolta per le vie del quartiere la manifestazione Brancaccio per la vita, organizzata in occasione della morte di Paolo Borsellino e che annoverò anche la partecipazione della sorella del giudice Rita. Puglisi aveva certamente capito da dove arrivassero quelle minacce e sapeva bene che esse erano usate dai “capi in testa” come mezzi di dissuasione nei suoi confronti dal continuare a operare nella direzione intrapresa.  Il suo tendenziale silenzio sulle intimidazioni subite non era frutto di paura, né effetto del temperamento schivo e riservato benché capace di gustosa autoironia; men che meno era segno di un’indomita resistenza alla prepotenza di Cosa Nostra, in quanto esso era dettato solamente dalla forza del Vangelo, il libro che il parroco portava sempre sotto braccio. Pur prestando attenzione a non mettere in pericolo i propri collaboratori, egli si donava liberamente e consapevolmente, in un supremo atto di carità, per testimoniare la propria fedeltà a Cristo e alle esigenze esplicite del Pater noster, dunque al Vangelo e alla Chiesa, probabilmente non valutando così imminente quell’atto di eliminazione definitiva, che poi, purtroppo, si verificò. Del resto, non avevano valutato il pericolo né la polizia - che, dopo le intimidazioni, aveva, su indicazione della prefettura, solamente reso più frequenti i posti di blocco serali - né la stessa autorità ecclesiastica, che non aveva pensato di spostare il parroco o di chiedere all’autorità civile qualche forma di protezione, anche se qualche amico sacerdote, aveva suggerito a don Pino, come già ho accennato, di farne parola con il prefetto. libro.jpg«3P»: un padre autentico Don Pino fu nominato parroco di San Gaetano e Maria Santissima del Divino Amore a Brancaccio dopo un servizio quasi trentennale (anche di parrocato) svolto in diversi altri incarichi, esercitati sempre con una particolare attenzione verso i più giovani. Le omelie e gli interventi collegati a queste attività pastorali erano così incisivi che gli stessi ragazzi e molte altre persone che lo ascoltavano si portavano dietro apparecchi e audiocassette per registrarli. Questo lo dico per dare evidenza su quanto fossero penetranti le sue parole e coinvolgenti le sue argomentazioni. Collaborando con l’Azione cattolica, del resto, egli poté seguire «in particolar modo i giovani e s’interessò delle problematiche sociali dei quartieri periferici della città. Il suo desiderio fu sempre quello di incarnare l’annunzio di Gesù Cristo nel territorio, assumendone, quindi, tutti i problemi per farli propri della comunità cristiana».  Nel suo quartiere di nascita, dove ritorna ormai prete maturo, egli ritrova, seppure trasformata rispetto al primo dopoguerra, una degradata situazione sociale e morale, soprattutto tra i ragazzi e i giovani, causata dal prolungato abbandono da parte dei responsabili politici e amministrativi. L’assenza delle istituzioni era stata via via soppiantata dalle infiltrazioni del clan locale che - com’è tipico nelle strategie d’impronta mafiosa - aveva buon gioco a “pescare” risorse umane in un contesto di povertà e miseria per svolgere i suoi loschi affari di estorsione, di controllo della prostituzione e del mercato della tossicodipendenza. Al ministero parrocchiale, alle celebrazioni  sacramentali, all’annuncio catechetico - che erano già precise strategie educative a vantaggio dei più giovani - don Pino alternava sia duri richiami alla malvagità dei mafiosi, sia, soprattutto, molteplici iniziative per recuperare i giovani a rischio di devianza, di evasione e mortalità scolastica, o di degenerazione criminale. Si sapeva che, nella zona di via Hazon, esisteva un fenomeno di miniprostituzione e, con esso, diversi casi di microcriminalità, che favorivano le frequenti assenze dei ragazzi del quartiere dalle attività scolastiche. Di qui la richiesta avanzata da Puglisi di recintare i locali al piano terra, onde ostacolare in ogni modo le attività illecite. «3P», come lo chiamarono presto gli amici, e cioè «padre Pino Puglisi», era una mano decisa per resistere al traviamento giovanile, un autentico padre per gli ultimi e i dimenticati della periferia. Ma come recuperare adolescenti e giovani, a volte già reclutati dalla mafia o in procinto di esserlo, anche a motivo della latitanza di cambiamenti socioeconomici attuati dallo Stato? Doveva essere questa una delle domande che don Pino si poneva nei momenti di verifica e di preghiera. Sul piano educativo e di annuncio, egli proponeva, in alternativa, una cultura del Vangelo, della promozione umana e della legalità, ripensata alla luce della dottrina della fede e della giustizia, secondo l’insegnamento di Gesù. Sul piano operativo, promuoveva e svolgeva con dedizione attività di supporto scolastico, come mostra anche la richiesta di istituire una scuola media (che, tuttavia, sarà inaugurata solamente nel 2000, sette anni dopo la sua morte). Sul piano sociale e ricreativo, co-promuoveva attività sportive nel campetto, anche con il supporto delle Sorelle dei poveri di santa Caterina da Siena. Per tutte queste ragioni, appariva d’ostacolo a coloro i quali, frattanto, controllavano con metodo mafioso il territorio. Il killer, affiliato alla mafia e poi pentito, Giovanni Drago ha affermato: «Era una spina nel fianco. Predicava, predicava, prendeva i ragazzini e li toglieva di strada. Faceva processioni, gridava di lottare… Questo era sufficiente, anzi era sufficientissimo per farne un obiettivo da togliere di mezzo». Per sottrarre i bambini alla mafia Don Pino lavorava a tutto vantaggio dei bambini e degli adolescenti, che le famiglie gli mandavano non solo a catechismo, ma anche al doposcuola, a Godrano, poi a Brancaccio. La dedizione verso i più piccoli era, anzi, un autentico programma di azione del parroco don Pino, convinto che nessuna creatura umana avesse il futuro scontato, anche se nasce in contesti degradati e poveri. Del resto, il pubblico ministero, nel processo celebrato davanti alla Corte di Assise di Palermo, così descriveva Brancaccio, nella sua requisitoria del 23 febbraio 2008: «Il quartiere di Brancaccio era (ed è) una frontiera scomoda per tutti, un territorio a perdere, un incontrastato dei criminali e dei mafiosi perché guai a opporsi a loro. Ecco perché il quartiere di Brancaccio, agli occhi del parroco, apparve come una vera e propria missione. Una missione difficile come alcune parti dell’Africa affamata o come alcune zone della violenta America Latina. Una missione pericolosa. Don Pino Puglisi doveva sapere tutto questo, ma la Chiesa era la sua missione pastorale, ciò che Nostro Signore aveva deciso che fosse e com’era facile ricavare dal Vangelo e dal Pater: venga il tuo Regno, che eclissa ogni altro potere terreno, soprattutto se malefico; dacci il pane quotidiano; non ci abbandonare alla tentazione… Il motivo si manifestò chiaro nell’attività evangelica e pastorale, nella luminosa contrapposizione di quest’attività pastorale e sociale al regime di terrore, morte e sopraffazione imposto, invece, dalla mafia… La chiesa di Brancaccio e la semplicità disarmante di don Pino Puglisi erano davvero una spina nel fianco della mafia di quel quartiere che vedeva compromesso il suo primato». Come testimonia anche un seminarista del seminario in cui don Pino aveva svolto il compito di Direttore spirituale «tutto il suo ministero è stato una continua testimonianza di abbandono e fiducia in Dio e nell’uomo… Non ci ha mai parlato dei suoi problemi con la mafia, delle sue difficoltà e gioie pastorali a Brancaccio o delle tante iniziative e attività portate avanti come parroco della comunità. Ci ha presentato sempre il Vangelo. Solo e sempre la Parola del Signore» . In tale complessa situazione, Puglisi si convince di dover partire proprio dall’educazione dei ragazzi e dei giovani, ridando dignità a persone che, divenute adulte, trasformeranno il volto delle loro famiglie e del quartiere. Dirà il mafioso Pietro Romeo a un processo: «Si prendeva i bambini per non farli cadere, diciamo, per non farli diventare persone che rubano… che vanno in carcere… per non darli nelle mani alla mafia» . Sottolineava, a sua volta, l’allora arcivescovo di Monreale, monsignor Cataldo Naro: «Bisogna partire o ripartire dalle nuove generazioni, nella convinzione che è possibile staccarle da una radicata mentalità secondo cui è possibile essere mafiosi o, comunque, essere conniventi con l’organizzazione mafiosa e, nello stesso tempo, partecipare alle processioni e perfino pensare di vivere un rapporto con Dio». Don Pino insegna, insomma, la vera religione (sempre fiduciosa in chi è bambino o sa ridiventare «come un bambino») e mostra ai più piccoli come ai grandi, in maniera evidente, che la religiosità della mafia (entrare in Cosa Nostra è aderire a una comunità di «credenti in questa struttura criminale ») non ha nulla a che vedere con la fede in Gesù Cristo. Tutto questo esercita un fascino, soprattutto sui giovani, che cominciano ad aver fiducia nell’opera di risanamento morale, sociale e religioso, proposta del parroco il quale, piuttosto che imporre i suoi tempi, si adatta a quelli altrui, pronto anche a fermarsi per straritardare, talvolta, l’arrivo in chiesa. Ancora quattro giorni prima di morire, sebbene pensoso e preoccupato per le diverse intimidazioni e le minacce subite, egli confida, come già accennato, a don Cosimo Scordato di voler comunque continuare a dialogare con chi lo minacciava, proprio mostrando l’obiettivo della trasformazione dei più piccoli: «Voleva far capire loro che stava facendo qualcosa per il quartiere, per i bambini». Già quando era nel Centro diocesano e regionale Vocazioni, nonché consigliere del relativo Centro nazionale, si era espresso allo stesso modo: «Innanzi tutto abbiamo bisogno di persone che si mettano a servizio dei fratelli, ponendosi accanto a ciascuno per un cammino graduale di discernimento; persone che, a tal fine, diano indicazioni, alla luce della Parola di Dio letta in situazione, perché ciascuno capisca qual è il servizio che deve rendere». Ecco, allora il senso della sua dedizione a vantaggio delle giovani generazioni: porsi al servizio dei giovani fratelli, presentando una fede non disincarnata, ma “in situazione”. Per questo era amato dai giovani, oltre che dai poveri e dalle persone oneste. Per questo rischiava di entrare nel “mirino” delle persone disoneste, aderenti e colluse con il potere mafioso.

«La Chiesa del silenzio» diventa «la Chiesa che parla» Negli anni dal 1991 al 1993, don Pino viene affiancato a Brancaccio da suor Carolina Iavazzo. Anche di lei - a riprova di uno stile educativo comunque presente e comune in quella comunità palermitana - si racconta che «è stata capace di coinvolgere nelle attività da lei promosse i bambini più irrequieti del quartiere, i ragazzi che avevano problemi con la giustizia, le ragazzine avviate verso una brutta strada». Tutto questo appare, agli occhi dei mafiosi, come un’“invasione di campo”. In un’intercettazione captata alla vigilia del ventesimo anniversario dell’assassinio di don Pino, il boss Salvatore Riina accusa la vittima di aver sconfinato in un àmbito non di “sua competenza”: «Il quartiere lo voleva comandare iddu. Ma tu fatti il parrino, pensa alle messe, lasciali stare… il territorio… il campo… la Chiesa… Lo vedete cosa voleva fare? Tutte cose voleva fare iddu nel territorio... tutto voleva fare iddu, cose che non ci credete» . Al giornalista Filippo Nobile, che le chiedeva quale messaggio desiderasse dare ai giovani ricordando don Pino, suor Giuseppa di Marco, Figlia della Croce, che bene lo aveva conosciuto, rispose: «Padre Pino affermava sempre che la Fede, sola Fede, può plasmare le cose. Invitava i giovani a fidarsi, ad avere fede ma allo stesso tempo li esortava al discernimento per sfuggire i pericoli della nostra società. Egli diceva: “Non ci pensi che Dio ti ha creato perché ti ama? Nel Vangelo c’è Amore”». Anche senza essere storiografi o sociologi, chi è nato in Sicilia e ha ormai qualche primavera sulle spalle, ricorda che proprio nella Trinacria fiorì, negli ultimi decenni del secolo XX, una stagione dalla chiara connotazione civile, sociale e politica che fu chiamata “Primavera palermitana”. Pure la Chiesa ne fu lambita, anzi avvolta da quella stagione (non senza la spinta, a livello della Conferenza episcopale, dei Piani pastorali nazionali, che correlavano l’evangelizzazione ai sacramenti e alla promozione umana), grazie soprattutto all’allora arcivescovo di Palermo, il cardinale Salvatore Pappalardo. Fu così che quella che, fino a non molti anni prima, veniva da molti definita “la Chiesa del silenzio”, diventò “la Chiesa che parla”, che interpella, che invita al rispetto delle leggi degli uomini e di Dio, che ascolta e vede, che compie una nuova evangelizzazione del vero Vangelo, suscitando un impegno sociale e politico, combattendo i comportamenti criminali con un’opera di dissuasione dall’ingiustizia e di persuasione alla speranza. Grazie a questo nuovo annuncio del Vangelo, insomma, si destituisce di senso quell’atteggiamento specifico, diffuso nelle zone controllate da Cosa Nostra, che si definisce “mafiosità” e che può essere vinto solo che lo si voglia, attuando, come avvenne in Puglisi, quella che è la vera volontà del vero Dio sull’essere umano e sulla città degli uomini. 
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