mercoledì 7 settembre 2016
Il vescovo emerito di Padova dopo aver concluso il suo servizio episcopale nella diocesi veneta si è trasferito in Etiopia: «Il cuore non può restare insensibile di fronte a tanta necessità».
Mattiazzo, il vescovo «missionario»
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«Sto bene. Vivo su un altopiano a 2700 metri, mangio ortaggi, latte, poca carne come il resto della popolazione, le temperature sono sub tropicali, la grande differenza è tra stagione secca e umida, ma la salute è ottima». Ha il sorriso disteso e lo sguardo limpido di chi è sereno, l’arcivescovo Antonio Mattiazzo, 76 anni, vescovo emerito di Padova. Annunciando le sue dimissioni, nel giugno 2015, espresse la volontà di «andare come semplice  missionario in Etiopia». Il 7 settembre dello scorso anno è partito per la sua nuova “casa”, a Kofele, nella Prefettura di Robe (eretta nel 2012), affidata alla protezione di Madre Teresa di Calcutta e guidata dal cappuccino padre Angelo Antolini. In questo periodo è stato in Italia anche per rappresentare la Prefettura alla canonizzazione della suora albanese, dopodiché a nuova partenza portando con sé Enrico Rigoni, un “casaro” del caseificio di Asiago «per insegnare a fare il formaggio alla gente di Nansebo, una comunità a un centinaio di chilometri da Kofele», racconta sorridendo. Eh sì, perché l’Etiopia è uno dei paesi più poveri del mondo, l’analfabetismo elevatissimo, c’è bisogno di istruzione ma anche di formazione. E se i cattolici sono meno dell’1% della popolazione, molto dell’attività di promozione umana si deve alla Chiesa: a Kofele la Prefettura gestisce la scuola fino all’ottavo grado e un “centro sportivo”. Annuncio del Vangelo e cura della persona camminano insieme.  Lasciare tutto e andare dai più poveri del mondo dopo essere stato vescovo, perché? «La mia scelta vocazionale iniziale era missionaria – racconta il presule –. Questa prima fiamma è rimasta sempre accesa. La salute me lo permetteva e ho iniziato una ricerca per capire dove proseguire l’impegno di evangelizzazione. Ero indeciso tra Thailandia (monsignor Mattiazzo è stato fautore della missione triveneta in Asia, ndr) e Africa. Questa Prefettura aveva bisogno, era la più povera dal punto di vista ecclesiale, il clima era buono, e poi fa parte della missione il dialogo interreligioso e qui siamo tra musulmani». A Kofele, “padre” Antonio, vive con un cappuccino etiope e una signora che provvede alle cure domestiche; settimanalmente li raggiunge da Addis Abeba, padre Bernardo Coccia. L’agenda del vescovo missionario è densa dalla catechesi alla visita alle famiglie, dall’ascolto agli incontri di lettura e spiegazione delle letture domenicali, alla Messa al più recente corso di dottrina sociale della Chiesa per chi ha formazione più avanzata. Ma non mancano idee e progetti – una cooperativa, una scuola tecnica professionale, sostegno per i disabili – né le gioie, come l’avvio lo scorso 19 giugno, solennità di Pentecoste per la Chiesa etiopica, di una piccola comunità cristiana a Kokossa, una realtà che monsignor Mattiazzo ha seguito e accompagnato settimanalmente a costo di lunghi e a volte faticosi viaggi. «È una cittadina a 60 km da Kofele, padre Angelo e padre Bernardo avevano iniziato, ho preso il testimone da loro. Appena arrivato ho cominciato ad andare ogni settimana. Si è formato un piccolo gruppo, li ho incontrati e conosciuti uno a uno, e abbiamo avviato il percorso del catecumenato. 36 sono stati ammessi ai sacramenti, altri sono in cammino». Cosa significa per loro diventare cristiani? «Dicono che si sentono rinati. Prima erano abbandonati a se stessi ora si sono sentiti valorizzati, sentono che c’è qualcuno che gli vuole bene, che c’è qualcuno mandato da Dio per loro. Un altro elemento che ha dato loro molta speranza è stato l’avvio del microcredito in modo che, soprattutto le donne, potessero comprarsi una pecora: qui significa moltissimo ». Accoglienza, essenzialità, cura, gioia, sono i segni della Chiesa che inizia e che sollecita: «Qui la pratica delle opere di misericordia corporali ci interpella di continuo e il cuore non può restare insensibile di fronte a tante necessità. Si sperimenta che i poveri ci evangelizzano perché ci interpellano e ci provocano sul nostro benessere e sui nostri stili di vita» annota nel suo diario l’arcivescovo Mattiazzo.
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