sabato 24 gennaio 2015
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Ritornanti polemiche di alcuni opinionisti sui gesti e sul magistero di papa Francesco sembrano collocarsi all’interno di un movimento di malumore che, in alcuni ambiti della Chiesa e fuori di essa, viene alimentato nei confronti di questo pontificato. Ciò che mi preoccupa è l’ideologizzazione degli argomenti, e il fatto che si stia bypassando il 'grande discorso' che papa Francesco sta facendo alla Chiesa (la conversione missionaria, il rilancio dell’evangelizzazione, il coraggio di varcare porte e confini...), per giudicare un pontificato a partire da alcuni gesti 'fuori programma' e da dichiarazioni poco protocollari che colpiscono, interrogano e, a volte, lasciano perplessi. Ma che sono anche il pungolo per provocare una nuova riflessione sulla missione nel tempo presente.  Sembra che si punti a far emergere una dura contrapposizione di visioni non solo sul pontificato, ma sulla stessa concezione di Chiesa. Per questa via, però, non ci si accorge o si dimentica che nella Chiesa, in forza dell’azione dello Spirito Santo, la diversità di sguardo, se non ideologizzata, diventa ricchezza per la missione. In Cristo le contrapposizioni si dissolvono; conservatori e progressisti si incontrano e si riscoprono nella categoria fondamentale del «discepolato», tanto cara al Papa, e concorrono a edificare l’unica Chiesa di Cristo, perché legati dalla medesima fede in Lui. Trovo che gli argomenti e lo stile di alcuni critici sistematici del Papa rischino, essi sì, di disorientare i fedeli. Vittorio Messori, a proposito dei gesti del Pontefice, ha scritto di una «imprevedibilità che continua, turbando la tranquillità del cattolico medio, abituato a fare a meno di pensare in proprio, quanto a fede e costumi, ed esortato a limitarsi a 'seguire il Papa'». Sono preoccupato da una frase del genere. Come pastore. Il «cattolico medio» non è la misura dell’essere Chiesa. La misura è nel «duc in altum» con cui Giovanni Paolo II aprì la missione nel XXI secolo. È nel grande messaggio della Evangelii gaudium.  Il «cattolico medio», così come viene definito – tranquillo, senza una propria capacità di pensiero autonomo, uno che deve 'solo fare quello che gli viene detto' e che sarebbe confuso da questo pontificato – rappresenta non la misura, ma il problema, perché una simile figura solleva la questione dell’efficacia di azione pastorale che dovrebbe suscitare cristiani maturi, leader nelle proprie comunità e autentici evangelizzatori. Allo stesso modo, la parola di Francesco non è il problema, ma il segnale d’allarme di una crisi in atto e lo sprone a superarla: è più facile – e comodo – suscitare semplici 'praticanti' e 'ripetitori obbedienti' anziché evangelizzatori.  Nella Chiesa cattolica il Papa è colui che tiene insieme, nella comunione, tutta l’incredibile complessità che la Chiesa stessa rappresenta. Tenere insieme questa complessità è la croce del pontificato. Ed è una croce che deve essere condivisa dall’intero popolo di Dio.  Valorizzare la diversità di visioni per costruire unità in un tempo di grandi smarrimenti è, insieme, la sfida e la croce del cristiano, oggi. La Chiesa non può essere pensata, vissuta e raccontata secondo 'logiche parlamentari', dove opposte fazioni si annullano a vicenda a colpi di votazioni.  Nessun Papa ha la ricetta per la soluzione dei problemi del proprio tempo. Francesco e il suo predecessore Benedetto rappresentano, ognuno secondo i rispettivi doni, una ricchezza inestimabile per la Chiesa. Non ci si può sbandierare 'papalini', 'cattolici, apostolici, romani' solo quando si ha un Papa di proprio assoluto gradimento. Questo non è secondo il Vangelo. Ne è piuttosto la sua manipolazione. *Sacerdote e direttore per l’Italia del Movimento per un Mondo Migliore
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