venerdì 26 giugno 2015
I monaci di Camaldosi: il nostro sacro legame con la natura
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Nella loro Regola della vita eremitica si parla espressamente di «bellezza de’ boschi» che non deve essere «mai scemata». E più volte tornano i verbi «custodire» e «coltivare» d’impronta biblica che papa Francesco rimarca nell’enciclica Laudato si’. Per otto secoli, fino all’Unità d’Italia, i monaci benedettini di Camaldoli sono stati gli “angeli” della foresta del Casentino che accoglie l’eremo – insieme con il monastero – fondato dieci secoli anni fa da san Romualdo. Più di millequattrocento ettari di abeti, faggi, castagni, querce, aceri, olmi e pioppi che si arrampicano sull’Appennino toscano, nell’ultimo lembo della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro verso l’Emilia Romagna. Non è un caso che La regola della vita eremitica data dal beato Romualdo ai suoi camaldolensi eremiti scritta dal beato Paolo Giustiniani, priore dell’eremo, e proposta alle stampe nel 1520, sia passata alla storia come il “Codice forestale camaldolese” che di fatto ha costituito la primordiale regolamentazione forestale italiana.

«Generazione dopo generazione – spiega dom Alessandro Barban, priore generale della Congregazione camaldolese dell’Ordine di san Benedetto – i monaci hanno garantito la vita della foresta che ci circonda. All’origine del nostro rapporto con l’ambiente non c’è una semplice preoccupazione di carattere tecnico, ma una dimensione teologica radicata nella consuetudine della Parola di Dio che crea, ama, sostiene e porta a compimento il progetto di armonia universale. Un rapporto di comunione nel quale non esiste prevaricazione né dell’uomo sul creato, né della natura sull’uomo».

Un sano e “santo” legame, come auspica il Papa nell’enciclica dedicata alla «cura della casa comune». «È un testo – sottolinea dom Barban – che accende un faro sulle ferite della terra. Anche noi, che viviamo fra gli alberi piantati dalla nostra famiglia religiosa, sperimentiamo in piccolo i disastri ambientali che Francesco critica. Penso alle improvvise bufere dello scorso inverno che hanno abbattuto centinaia di piante secolari. Sono esperienze che, fra le celle del nostro eremo e del nostro monastero, richiamano i drammi del pianeta segnalati dal Pontefice: la mancanza di cibo e acqua, l’iniqua distribuzione delle risorse, lo sfruttamento della natura, i cambiamenti climatici, la perdita della biodiversità».

Per i monaci camaldolesi, la foresta assicura quel silenzio vitale per poter ascoltare la voce del Signore, degli uomini e della storia. Quasi una declinazione in chiave contemplativa del concetto di «ecologia integrale» caro a Francesco. «Il Papa – afferma il priore generale – parte dall’ambiente per denunciare l’attuale pensiero dominante che minaccia l’essenza stessa dell’uomo come soggetto voluto e amato da Dio. A Francesco sta a cuore la dignità degli esseri umani che in gran parte dei continenti sono scartati e messi ai margini dal paradigma tecnocratico. Ecco la nuova ideologia globale: attraverso l’assolutizzazione della tecnica, vengono offerte vie che umiliano l’umano. Siamo di fronte a un’emergenza etica che ci interpella anche sul piano teologico, spirituale ed ecclesiale. Perché, quando si intacca il proprio dell’uomo, la creatura privilegiata di Dio, si mina tutto l’intero disegno che il Signore ha su di noi».

A Camaldoli l’attenzione alla natura, espressione quasi di un pollice verde monastico, non è un qualcosa “in più” ma contribuisce al percorso spirituale e di ascesi dei “figli” di san Romualdo che hanno festeggiato la memoria liturgica del loro fondatore il giorno successivo alla pubblicazione di Laudato si'. Per questo ai religiosi piace l’invito a una «spiritualità ecologica» contenuto nell’enciclica. «C’è bisogno di un cammino che unisca la Sacra Scrittura, i Sacramenti e persino il riposo da tradurre in una nuova postura del cristiano nel mondo – osserva il priore generale –. In quest’ottica gioca un ruolo fondamentale la formazione: servono itinerari educativi che consentano di prendere coscienza di quanto accade e di elaborare una consapevolezza rinnovata sul nostro stile di abitare il mondo». E dom Barban cita l’immagine della «mano» presentata al paragrafo 106 dell’enciclica. «Il Papa ci chiede di tendere la mano al creato, superando la logica attuale che è quella della mano umana che è interessata a estrarre tutto quanto è possibile dalle cose e a dimenticare la realtà stessa».

Allora si torna al verde che si scorge dalle finestre del monastero e che è quello del Parco nazionale delle foreste casentinesi. «Dio, l’uomo e la creazione sono tre pilastri che devono essere uniti dallo stesso architrave – conclude il priore generale –. Quando uno dei pilastri viene meno, si creano scompensi che mettono in pericolo l’umano. Abbiamo già sperimentato correnti di pensiero o approcci pratici che hanno al centro la perdita di Dio. Ora il Papa ponte l’accento sul rischio che il pianeta, nostra casa comune, possa essere umiliato. La sfida è ricostituire un circolo virtuoso fra l’Onnipotente, l’uomo e il creato. Allora cielo e terra torneranno davvero a baciarsi».

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