martedì 24 marzo 2015
Testimoni del Vangelo sull’esempio di Romero, beato il 23 maggio. Secondo Fides, nel 2014 sono stati uccisi 26 operatori pastorali.
Nel segno di Romero testimoni della fede di Giulio Albanese
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Il popolo. Il suo popolo. Lo stesso che per tre anni ha camminato ore per recarsi in Cattedrale ad ascoltarlo. Che, negli anni più feroci della guerra, si è nutrito di quelle parole per andare avanti. E che, a dispetto della repressione, ha tramandato la testimonianza dell’arcivescovo martire ai propri figli. Anziani come Flor che, nonostante abbia necessità di un girello per spostarsi, non ha rinunciato al farolito (la fiaccolata) dal monumento al Divino Salvador del Mundo fino alla Cattedrale di San Salvador. Ventenni come Anastasia, convinta che nelle sue omelie ci sia la chiave per costruire un Paese più giusto.È ininterrotta la festa nella più piccola nazione d’America. Da quattro giorni, nella capitale come nelle più sperdute comunità rurali, in milioni ricordano il 35° anniversario dell’assassinio dell’arcivescovo Óscar Arnulfo Romero, che ricorre oggi. Data – quella del 24 marzo – scelta, per iniziativa del Movimento giovanile missionario delle Pontificie opere missionarie italiane 23 anni fa, per celebrare la Giornata di digiuno e preghiera per i missionari martiri. Ventisei sono stati gli operatori pastorali uccisi nel mondo solo nel 2014: 17 sacerdoti, 1 religioso, 6 religiose, 1 seminarista, 1 laico. Secondo i dati in possesso dell’agenzia Fides, sono tre in più rispetto all’anno precedente. La maggior parte, ancora una volta, in America (14). Dal 1980 allo scorso anno sono stati uccisi 1.062 missionari. E le cifre sono da considerare in difetto poiché si riferiscono solo ai casi accertati e di cui si è avuta notizia.In El Salvador il calendario di eventi era stato già programmato da tempo. E sempre, perfino durante il conflitto civile, quando la partecipazione poteva scatenare la vendetta degli squadroni della morte, è stata molto sentita. L’annuncio dell’imminente beatificazione di Romero il 23 prossimo maggio – l’annunciato è stato dato nei giorni scorsi a San Salvador dal postulatore, l’arcivescovo Vincenzo Paglia che domenica, per questa Giornata, ha celebrato a Roma una Messa in Santa Maria in Transpontina –, però, rende questo anniversario indimenticabile. Soprattutto per loro, i «preferiti di Dio» e di Monseñor (come i salvadoregni chiamano affettuosamente Romero). «Doveva essere così – ha detto l’arcivescovo José Luis Escobar Alas, durante la veglia nella piazza della Cattedrale di San Salvador iniziata sabato sera e andata avanti fino all’alba di domenica –. Perché un uomo di Dio non può non avere una preferenza speciale per i poveri, in cui vede il volto di Cristo». E ha aggiunto: «Difendeva i poveri per essere fedele al Vangelo. Per questo è stato martirizzato. E per questo Romero è il primo beato del Concilio Vaticano II e dell’episcopato latinoamericano».«Era un uomo di incredibile semplicità e trasparenza – racconta ad Avvenire monsignor Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare di San Salvador e stretto collaboratore di Romero –. Non l’ho mai visto così felice come quando andava nelle comunità contadine e, dopo la Messa, si fermava a mangiare una tortilla (impasto di mais) con loro». Per Rosa Chávez, Romero «ha incarnato la Parola in una storia sanguinosa. E questo l’ha portato al martirio». Quel 24 marzo di 35 anni fa, monsignor Rosa Chávez celebrava la Messa con i seminaristi quando seppe dell’assassinio di Romero. «Mentre mi precipitavo da Monseñor, passando per i quartieri alti, ho sentito con le mie orecchie le grida di giubilo di molti esponenti dell’oligarchia, vicini ai miliari, per la morte del "vescovo sovversivo". Fortunatamente, ora, alcuni si stanno rendendo conto di aver giudicato Romero senza averlo davvero mai ascoltato».
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