sabato 10 ottobre 2015
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Se cent’anni autorizzano a parlare di una vita sazia di giorni, è presto invece - per il suo caso - scomodare Giobbe e le immagini di un corpo come 'un abito roso dal tarlo'. Certo, le forze fisiche si affievoliscono, ma, detto con il Qoelet «il sole, la luce, la luna e le stelle» le forze intellettive insomma - in lui brillano sempre. Lo aiutano a ripensare gli anni lontani, ben sicuro che, come dice il Salmo, anche per lui non cessa l’Amore «che non può aver dimenticato la misericordia». E lo aiutano a descrivere la sua situazione con una lucida sintesi: «Vivo i miei giorni del tramonto assistendo al rinnovarsi dell’aurora della Chiesa. Ed è motivo di consolazione. Tantum aurora est… ». Il centenario di cui parliamo è un porporato famoso: Loris Francesco Capovilla, l’antico 'contubernale' di Giovanni XXIII come ama definirsi. Per fargli un ritratto, in questi giorni, ci si potrebbe legare a una poesia di Boris Pasternak in cui potrebbe rispecchiarsi. Una lirica che inizia con in versi: «Essere rinomati non è bello/ non è così che ci si leva in alto./ Non c’è bisogno di tenere archivi, di trepidare per i manoscritti// Scopo della creazione è il restituirsi,/non il clamore, non il gran successo…», e che finisce inneggiando all’«essere vivo, nient’altro che vivo/, vivo e nient’altro sino alla fine».  Ma, di ritratti per l’occasione, Capovilla non vuol sentir parlare. Così come lo urta un po’ la parola festeggiamenti. Altri sarebbero tutt’al più i desideri per il 14 ottobre traguardo del suo secolo: «Che bello se potessi trascorrere quel giorno con i profughi accolti a Sotto il Monte, a far capire loro l’uomo uscito da questa terra o con i carcerati, a riflettere sul Giubileo della misericordia », così confidava nei giorni scorsi. Già ieri è stato esaudito.  Nel frattempo, questo vescovo al quale il 21 maggio 2011, a Gallarate, il cardinale Carlo Maria Martini diceva «Dio le conceda lunga vita perché lei continui a parlarci di papa Giovanni, anzitutto dell’ispirata decisione di convocare a Concilio tutto il mondo...», quasi spiazzando tutti, ha finito per rammentare l’avvicinarsi del suo compleanno, accennandovi in un suo nuovo opuscolo. Poche pagine sotto il titolo 'Cento anni' (Bergamo, Corponove, 2015, pagine 24), sì, ma in cui ricorda e postilla un’inedita omelia roncalliana vecchia un secolo - del 15 settembre 1915 e conservata presso la Fondazione Papa Giovanni XXIII di Bergamo - nella quale individua già «l’abbandono totale nei divini voleri», poi al centro di tutta la vita di Roncalli. Era il primo anno della Grande Guerra e il futuro Giovanni XXIII prestava servizio negli ospedali bergamaschi, predicava, scriveva la biografia del 'suo' vescovo, Radini Tedeschi. «Il centenario di questo vostro pensiero mi invita a riflettere sul fatto che, dopo un mese esatto, sono nato io, e non occorre che ve ne parli, giacché conoscete tutto..», scrive dunque Capovilla, in una 'Lettera'al 'Venerato e Santo Papa Giovanni' nello stesso libriccino. «Arrivato a cent’anni non ho avventure strepitose da raccontare, tranne l’incontro con voi, che siete stato l’ispiratore del mio servizio sacerdotale a Venezia, in Vaticano, in Abruzzo, nelle Marche e a Bergamo. Di nulla mi vanto, non mi sento creditore verso alcuno, sono in debito invece con voi, con i miei amati genitori Letizia e Rodolfo e mia sorella Lia con suo marito Carlo...», così poi continua il porporato in uno dei rari scritti in cui cita i familiari.  È l’unico passaggio autobiografico di un testo che associa i suoi cent’anni a quelli della Grande Guerra: un testo dove Capovilla ritrova la 'cifra' di «un pensiero e di un modo di operare». Che ha dimostrato di saper apprendere stando «non all’ombra, ma nella luce» del patriarca, a Venezia, poi del Papa, in Vaticano. Nato a Pontelongo, orfano del padre a sette anni, trasferitosi con la madre e la sorella a Mestre nel 9’29, Capovilla è stato ordinato prete nel ’40. Di lì a poco l’entrata in guerra dell’Italia che ne ferma la prosecuzione degli studi. Nel frattempo viene impegnato come coadiutore parrocchiale, catechista, insegnante, cerimoniere, cappellano. Destinato al Corpo di spedizione in Russia, ma ritenuto inadatto, è inviato all’aeroporto di Parma per l’assistenza religiosa. Qui lo coglie l’armistizio del ’43 e strappa alcuni avieri all’internamento. Ritornato a Venezia a dicembre, anche perché malato, lo fanno cappellano dell’ospedale per  gli infettivi a Santa Maria delle Grazie. Poi nel dopoguerra lavora nei media: i commenti al Vangelo dalla Rai di Venezia, la direzione della 'Voce di San Marco', della pagina locale dell’'Avvenire d’Italia'. Roncalli , che l’aveva già incontrato nella laguna e a Parigi, lo vuol subito con sé: e al vicario Erminio Macacek che gli fa osservare «è un buon prete, bravo, non gode però di buona salute e avrà vita breve», il risponde «Beh, se non ha salute verrà con me e morirà con me». Il resto è noto: dopo il fedele decennale servizio a Roncalli, gli è sopravvissuto per più di cinquant’anni. Continuando a servirlo e ad essergli contubernale nella comunione dei santi. Raccogliendone l’eredità. Facendone conoscere gli scritti - a partire dal 'Giornale dell’anima' - e gli orizzonti del Concilio. E questo già nelle sue lettere pastorali quando, nel 1967, si ritrovò arcivescovo di Chieti-Vasto a 52 anni (su questo periodo esce ora con Textus Edizioni il saggio di Enrico Galavotti 'Il pane e la pace. L’episcopato di Loris Francesco Capovilla in terra d’Abruzzo'), e, successivamente, quando, dal ’71, diventò Delegato Pontificio di Loreto, cui fece seguito dal 1989, il ritiro fecondo a Sotto il Monte. Qui due anni fa ha ricevuto la berretta cardinalizia dopo aver appreso della sua porpora seguendo sul piccolo schermo l’Angelus di papa Francesco. Capovilla lo sente vicino senza averlo mai incontrato. Lo segue in tv, se ne fa leggere gli interventi. Soprattutto, se lo ritrova accanto nella preghiera e nell’amore per i poveri. A lui potrebbe inviare una lettera idealmente spedita a papa Giovanni anni fa: «Ce l’avete fatto capire, Santo Padre: non un sistema ci occorre, specialmente in tempi di emergenza, non un’ideologia, non un computer; ci occorre un uomo in carne ed ossa, come erano i profeti; uomo che pensa, prega ed ama; uomo non costruito sul protocollo, né sulla diplomazia; uomo che ti sorride con gli occhi; uomo i cui occhi nuotano talora nelle lagrime senza che si alterino i tratti del volto». Sì, don Loris vede in lui molto del papa Giovanni che ha amato e servito, del quale ha testimoniato per mezzo secolo. E rendendosi conto ora di aver scritto tante pagine: non di una storia di ieri, ma di una storia del futuro.
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