mercoledì 22 novembre 2017
La fede, la famiglia, la crisi: in un libro intervista il cardinale rilegge i dieci anni alla guida della Cei
Bagnasco: «Una Chiesa casa per tutti»
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I dati sociologici attestano una secolarizzazione incalzante, una diminuzione sensibile della percentuale di battezzati tra i bambini e di matrimoni sacramentali, una disaffezione crescente dalle pratiche cattoliche. Cardinale Angelo Bagnasco, cosa rimane dell’esperienza di ieri?
«Non credo sia corretto giungere a letture affrettate. Sarei, perciò, tentato di rispondere con quello che la Chiesa fa e che rende le nostre parrocchie, gli oratori, le scuole, i centri d’ascolto un riferimento sicuro sul territorio. A preoccupare deve essere la stanchezza con cui a volte proprio noi credenti ci trasciniamo. La tiepidezza di un credere vissuto “senza esagerare”, secondo il criterio di una linea mediana, considerata sinonimo di equilibrio e saggezza: quanta attenzione a essere anche in questo campo politicamente corretti, ad evitare il giudizio di chi potrebbe scambiarci per esaltati, fanatici o intolleranti! Quando si entra in quella zona di tiepidezza e opacità anche le cose più grandi e sacre diventano grigie. Il risultato è l’insoddisfazione interiore e la noia, una fede non vissuta ma vivacchiata, languida, poco significativa, alla stregua di chi si illude di poter amare a metà».

Sul piano giuridico, lei ha più volte messo in guardia dal trasformare lo Stato in una sorta di notaio dei desideri e delle istanze dei singoli. Cosa teme?
«Vedo in atto una sorta di colonizzazione culturale, che intende ridefinire le basi della persona e della società, secondo una concezione dell’individuo sciolto da legami etici e sociali, proteso verso una sua presunta libertà assoluta. Si usa ancora il termine “famiglia”, ma si pensa a qualunque nucleo affettivo a prescindere dal matrimonio – che ne riconosce in modo impegnativo la valenza pubblica – e persino dai generi. Analogamente, si parla dei figli, ma quasi fossero un diritto degli adulti o addirittura un prodotto da laboratorio; si afferma la qualità della vita, ma la si riduce a efficienza e produzione, anziché interpretarla nella ricchezza di una rete di relazioni. Ancora: si discute sulla malattia e sulla morte come di realtà che devono essere a disposizione dell’arbitrio individuale e non invece nella prospettiva per cui la salute di ogni cittadino interessa il bene comune, come anche la nostra Costituzione afferma. In definitiva, temo la pretesa di chi punta ad assicurarsi diritti individuali assolutizzati e volutamente al di là dei corrispettivi doveri sociali».

Non pensa che una simile visione possa apparire come una sorta di discriminazione?
«Distinguere non significa discriminare; affermare che nulla può essere paragonato alla famiglia non vuol dire giudicare le scelte dei singoli o negare la possibilità di altre forme di convivenza. Quel che si chiede è che il valore di questa struttura antropologica non venga indebolito o umiliato da concezioni che le affiancano modelli alternativi, che in modo felpato costituiscono un vulnus progressivo alla sua identità; tanto più che tali rappresentazioni similari, in realtà, non sono necessarie per tutelare diritti individuali in larga misura già garantiti dall’ordinamento. La famiglia è il risultato paziente dell’antropologia di riferimento della nostra cultura, per la quale il nostro Paese è costituito anzitutto in una società di famiglie. Questa sua connotazione ha ripercussioni decisive a livello educativo, nella comunicazione intergenerazionale, nella resa scolastica, nel contenimento dei disagi giovanili, nelle strategie di prevenzione sociale, nel recupero dalle dipendenze».

Inizio e fine, nascere e morire: su queste frontiere la posizione ecclesiale rimane distante dalla mentalità corrente.
«La semplificazione può anche non dispiacermi, ma preferisco essere chiaro: quando la Chiesa si interessa dell’inizio e della fine della vita, lo fa anche per salvaguardare il “durante”, perché ciò che le sta a cuore è tutto l’uomo, la cui dignità non è a corrente alterna. Proviamo a entrare in una delle nostre case: la vita nascente – come la vita malata o anziana – è parte viva e cara del corpo familiare, poiché ognuno è importante e sta a cuore agli altri per quello che è, non per ciò che fa o produce. Così dovrebbe essere nel corpo sociale e nello Stato: la fotografia realista di una società è determinata anzitutto dal suo rapportarsi virtuoso non con i soggetti efficienti e produttivi, ma con i più bisognosi e indifesi. La vita fragile interpella non solo la famiglia, che già se ne fa carico, ma la società intera; chiede alla comunità e ai suoi apparati istituzionali di non abbandonarla ma di essere presa 'a cuore'. Sta qui la prima e incancellabile verità di una collettività e non in termini di assistenza, bensì di giustizia, poiché questo è lo scopo della buona politica».

Questa stagione di crisi finanziaria quali insegnamenti ci consegna?
«La prima lezione è relativa proprio all’energia che scaturisce dai vincoli familiari, supporto indispensabile, sostegno che – mentre dà – educa e, mentre educa, non lascia mai soli. Paradossalmente, la risposta migliore è arrivata soprattutto da quella realtà su cui ancora una volta è caduto il peso maggiore della crisi: anche in questo stretto tornante della vicenda nazionale, infatti, è stata la famiglia a rivelarsi il vero punto di forza che, nel momento del bisogno, ha saputo spremere il meglio di sé e sorreggere l’intero sistema».

Papa Francesco ha esortato i presbiteri a evitare la staticità e la pretesa di avere tutto ben organizzato e in ordine, per assumere lo stile di Gesù, il suo essere sempre sulla strada, in cammino...
«Ho letto in quelle parole il richiamo a non considerarci come custodi della sacralità del tempio, magari secondo orari rigidi e ben stabiliti nei quali attendere inerti l’eventuale arrivo della gente. Il presbitero va a cercare le persone là dove vivono, sta loro accanto, ne conosce il cuore e i suoi abissi, le accompagna da pastore. Non è un conquistatore di anime, ma un uomo conquistato da Gesù Cristo, dal quale si sente mandato a tutti, anche a quanti non frequentano o sono tiepidi rispetto all’appartenenza religiosa, a chi non si avvicinerebbe per timidezza o pregiudizio, per ignoranza o indifferenza. La gente, del resto, sente se il sacerdote le vuol bene, se è contento, se ha la mente e il cuore con la sua comunità o se è 'altrove' col pensiero e il desiderio; intuisce se si sente padre e, come tale, si comporta o se, alla fine, rimane un mercenario; se è un riferimento amorevole e autorevole o un funzionario a ore che, anziché servire, si serve...»

Lei ha detto che “l’esperienza più arricchente che ho fatto come vescovo è stata senz’altro la visita pastorale. Negli incontri, nelle riunioni con i diversi organismi, nelle celebrazioni comunitarie ho innanzitutto ascoltato e imparato”. Avrà anche toccato con mano come molti manchino all’incontro...
«Mi accompagna spesso la parabola evangelica del seminatore, che sparge ovunque la sua semente, con una generosità che sfiora l’insensatezza: la butta sulla strada, fra i rovi e le pietre... Rispetto a questo stile è difficile non avvertire come il nostro rischi di rimanere lontano, fino a manifestare un imborghesimento del pensiero e dell’azione: quante volte, pur con le migliori intenzioni, nella nostra pastorale siamo tentati di scegliere i terreni e gli ambienti, le situazioni e le categorie a cui rivolgerci... La logica del Vangelo è un’altra, come altri sono gli atteggiamenti che richiede. L’esperienza, a sua volta, ci insegna a essere attenti nei confronti delle circostanze di vita della gente, da dove ci viene indirettamente rivolto l’appello ad aprire le porte, perché nella comunità ci sia posto per tutti: non soltanto nel senso che ognuno possa entrare, ma che si senta a casa, stimato e accolto con la verità della sua condizione, le sue attese e le sue ferite».

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